La nobile banalità di Rota e Piovani


Nino Rota e Nicola Piovani che si trovarono entrambi a collaborare col regista Federico Fellini, costituiscono – secondo me – un caso unico nella storia della musica da film. 

La vicenda di Nino Rota fu già di per sé speciale, perché Rota fu il principale collaborare musicale di Fellini. Salvo poche eccezioni, a parte un film realizzato col contributo di Felice Lattuada e un altro con Mario Nascimbene, Nino Rota fu il collaboratore regolare di Fellini, fino al giorno in cui venne a mancare. Si trattò di una collaborazione felicissima perché, in effetti, quelle che ormai diciamo atmosfere “tipicamente felliniane” devono molto alla musica di Nino Rota che dava loro un carattere sognante, che quasi cancellava la percezione del tempo. Ma Nino Rota morì purtroppo nel 1979. A quel punto Fellini chiamò dapprima Luis Bacalov per scrivere la musica del film “La città delle donne” e, poi, Gianfranco Plenizio per “E la nave va”. Subito dopo incontrò Nicola Piovani ed è in lui che trovò il vero successore di Nino Rota; tanto che a Nicola Piovani chiese di scrivere la musica per “Ginger e Fred”, per “Intervista” e per “La voce della Luna”. Ho detto che Nicola Piovani risultò essere il perfetto successore di Nino Rota, perché mi sembra che questi due compositori, per quanto diversi tra loro per età e per formazione, abbiano qualcosa in comune. Hanno in comune, secondo me, la straordinaria capacità di scrivere musica “nobilmente banale”, se mi si passa che è quasi un ossimoro; sì, musica che sembra già di aver sentito da qualche parte, musica che è l'antitesi di quella ossessiva ricerca di originalità a tutti i costi che il Novecento aveva ereditato dall'estetica romantica.


Ho appena parlato di "nobile banalità" con imbarazzo, e desidero spiegare meglio cosa intendo. L’aggettivo “banale” è usato sempre in senso negativo (secondo me a torto), così come l’aggettivo “originale” viene usato invece sempre in senso positivo (e qui, secondo me, ci si sbaglia pure). Non la tiro in lungo con grossi discorsi di estetica, ma occorre almeno ricordare che l'amore sfrenato per l'originalità è cosa assai moderna. Nell’antichità e nel medioevo gli autori si copiavano a vicenda che era un piacere, e non si citavano nemmeno. Se per caso presentavano un’idea nuova quasi se ne vergognavano e magari la attribuivano ad Aristotele. Solo con l'Ottocento l’arte e la cultura occidentale fecero dell'idea di originalità una sorta di ossessione; originalità che, naturalmente, esprimerebbe il valore attraverso cui la singola l'opera d'arte si distingue dalle altre. Considerate, invece, quanto possa essere bello a volte ascoltare musica che pare già di aver sentito, ma di cui non siamo sicuri, che ci lascia nel dubbio; musica che ci presenta elementi familiari, fra cui qualche luogo comune, semplicemente perché, spesso, le cose ben dette meritano di essere ri-dette e quando semplicemente esprimono bene qualcosa che non vale la pena ri-esprimerla altrimenti. Un po' questa è la magia dell'arte di Nino Rota che di sovente ci ripresenta cose consuete, a volte in un contesto nuovo, ma e non sempre e non necessariamente. 


Ho provato a spiegare, e spero di esserci riuscito, così alla buona in cosa consiste la nobile banalità delle musiche di Nino Rota, così affascinanti, a dispetto dei numerosi luoghi comuni che contengono. Proprio lo stesso mi sentirei di dire, e lo intendo come un complimento, come un apprezzamento, di Nicola Piovani che tanto bene seppe subentrare, quasi come in una corsa a staffetta, nel ruolo che era stato di Nino Rota – cosa che sarebbe potuta sembrare impossibile. Anche la musica di Nicola Piovani, come quella di Nino Rota è affascinante, a dispetto, e anzi, proprio in ragione dei numerosi luoghi comuni che contiene. Proprio per questo aiuta a mettere gli ultimi film di Fellini in continuità di atmosfera con i precedenti. Mi viene in mente Pascal, quando dichiarava che non erano necessariamente le opere letterarie più originali e personali quelle che lo interessavano maggiormente. E Pascal usava poi una efficacissima immagine, quando diceva che l'originalità è solo un effetto, come nel gioco: i giocatori usano sempre le stesse palle, ma alcuni le piazzano meglio di altri. In altre parole, inutile cambiare le palline, e meglio assai migliorare le proprie capacità di gioco. In questo senso Nicola Piovani è un giocatore di gran classe. 


Quando l'estetica dell'originalità non si era ancora affermata, dell'artista si lodava la capacità di inserirsi nel solco di una radicata tradizione e di esercitare la propria invenzione all'interno di convenzioni generalmente accettate, anche se suscettibili di qualche cambiamento. L'estetica dell'originalità, al contrario, stabilisce una “distanza estetica" tra il brano nuovo e l'orizzonte di aspettative tradizionali del pubblico. Insomma, il luogo comune, la frase fatta, la frase che si conclude in modo prevedibile e scontato ci consentono di verificare in quale grado e misura siamo consapevoli della nostra tradizione di appartenenza e in quale misura artista e pubblico si trovino sullo stesso livello comunicativo. Anche le regole di questo gioco consentono di fare grande arte, come quella che io ritengo tale, che fu di Nino Rota e che oggi è quella di Nicola Piovani.

Conosco un solo altro caso, nella storia del cinema, in cui si chiese ad un compositore di immettersi nella cifra stilistica di un suo predecessore. Fu il regista Sergio Leone a chiedere ad Ennio Morricone di scrivere musica per un film Western come l’avrebbe scritta il russo-americano Dimitri Tiomkin (quello di “Mezzogiorno di fuoco”, per intenderci). Ma Morricone reinventò quello stile e creò quello per gli “spaghetti Western”. Nicola Piovani invece, caso più unico che raro, non dovette re-inventare nulla per essere se stesso. Continua ad esserlo. Esaurito il suo periodo felliniano ha saputo mostrare di possedere numerose altre corde nella sua lira e continua a sorprenderci.