Un ricordo di Roberto Leydi (1928-2003)
un’occasione per riflettere sulle origini e gli sviluppi dell’etnomusicologia in Italia

(questa è la riproduzione, alleggerita dalle note a pie'e di pagina, di un articolo apparso con lo stesso titolonella rivista Cenobio,LIV, 2005, no. 2, pp. 145-162. Lo stesso articolo si può reperire in lingua francese come “En souvenir de Roberto Leydi – Les origines et l’évolution de  l’éthomusicologie en Italie”, Cahiers de musiques traditionnelles, XVII/2004, pp.  297-314)

 

 

Con la scomparsa di Diego Carpitella nel 1990 e ora di Roberto Leydi, all’età di 75 anni, nel febbraio 2003, si è definitivamente conclusa la prima importante stagione dell’etnomusicologia italiana, una stagione che ha caratteristiche nazionali molto distintive e specifiche.

 

Che la scomparsa di Roberto Leydi abbia veramente questo significato lo si può comprendere appieno se si ricorda che in Italia, nell’Ottocento, lo studio del canto e della musica tradizionale non aveva avuto la stessa importanza e sviluppo di altri paesi europei. Il movimento ideologico-politico che animò il Risorgimento italiano e che poi condusse all’unificazione nazionale, infatti, non aveva visto in quello che allora si indicava come “folklore musicale” un fattore che potesse contribuire a riunificare il paese. Erano troppi e troppo diversi tra loro gli stili della musica tradizionale nel nord, nel sud e nelle isole. La lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio invece, coltivata allora da tutte le persone colte, indifferentemente da quale fosse il loro dialetto natio, era servita molto bene a questo scopo. Di conseguenza, nell’Ottocento, pochi studiosi italiani, perlopiù dilettanti, avevano raccolto sul campo poesia e canti tradizionali, in genere solo nella propria regione d’origine, come fece uno dei più importanti tra loro: Costantino Nigra (1828-1907). Nel Novecento poi, una volta che l’unità politica della Penisola era divenuta un fatto acquisito e irreversibile, numerosi studiosi (a questo punto anche musicisti professionisti) cominciarono a investigare più sistematicamente il patrimonio musicale delle diverse regioni. Tra questi ci furono: Alberto Favara (1863-1923), Marco Giulio Fara (1880-1949), Francesco Balilla Pratella (1880-1955), Cesare Caravaglios (1893-1937) e, poi, Giorgio Nataletti (1907-1972) che nel 1948 fondò a Roma il Centro Nazionale per gli Studi di Musica Popolare. Con il lavoro di queste persone era nata in Italia, se non proprio la “etnomusicologia” in senso moderno (che peraltro all’epoca si diceva ancora “musicologia comparata” e che nel sud dell’Europa aveva avuto poco seguito), almeno lo studio delle tradizioni musicali orali della Penisola, così come in Francia, per esempio, Jean-Baptiste Weckerlin (1821-1910), Julien Tiersot (1857-1936), Josef Canteloube (1879-1957) e altri, avevano cominciato a fare con qualche anno di anticipo.

 

La vera e propria etnomusicologia in Italia nacque però un poco dopo con due giovani ricercatori che iniziarono a fare cose importanti e davvero nuove nel periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Parlo, naturalmente, di Diego Carpitella (1924-1990) e di Roberto Leydi (1928-2003). Si trattava di due persone diversissime quanto a talenti, forma mentis, orizzonte culturale e capacità comunicativa. Se Diego Carpitella fu colui che, con Alan Lomax iniziò il primo campionamento sistematico del territorio italiano, Roberto Leydi fu quello che, con straordinaria capacità di coinvolgere un numero notevolissimo di giovani ricercatori, contribuì in modo fondamentale a fare dell’Italia uno dei territori meglio documentati d’Europa dal punto di vista delle sue musiche tradizionali. Con lui l’Italia ha ampiamente riguadagnato il ritardo con cui questo aspetto della cultura nazionale aveva cominciato ad essere studiato. Dicevo poi che con queste due personalità nasceva davvero in Italia l’etnomusicologia perché, sia Diego Carpitella che Roberto Leydi, avevano comunque un orizzonte musicale che non si limitava più solamente all’Italia e mostravano anche un modo di considerare i fenomeni della musica che era chiaramente alimentato sia dal pensiero antropologico europeo che da quello anglo-americano. In questo senso quindi, Carpitella e Leydi furono davvero etnomusicologi e non solamente studiosi di “folklore nazionale”. Questo è un fatto rilevante perché mai prima verificatosi in Italia, nemmeno durante il tardivo periodo coloniale (dalla guerra di Libia del 1911, fino alle colonie di Abissinia ed Eritrea durante il ventennio della dittatura fascista). Nemmeno allora gli studiosi italiani di folklore musicale si lasciarono realmente tentare dallo studio delle culture africane. Il colonialismo francese e inglese aveva molto favorito la nascita dell’etnologia e dell’antropologia, anche musicale, mentre Italia la stagione coloniale non produsse di questi stimoli. Solo con Carpitella e Leydi la cultura musicale Italiana cominciò ad aprirsi al mondo extraeuropeo e gli studiosi di oggi, tra i quali molti sono ex studenti o dell’uno o dell’altro, proseguono naturalmente in questa direzione: studiano il proprio Paese, ma non solo quello. Questo i ricercatori italiani di oggi lo fanno in misura spesso ancora più marcata che nel caso dei due sopracitati precursori i quali, nonostante i loro ampi interessi, di fatto finirono poi per pubblicare principalmente contributi che riguardavano l’area nazionale che, indubbiamente, era allora un territorio in buona parte ancora da esplorare.

 

Se per ricordare e apprezzare il lavoro svolto da Roberto Leydi giova sicuramente vederlo in questa prospettiva storica che ho tentato di delineare brevemente, questa prospettiva però non basta assolutamente a mettere in luce la particolarità della sua figura di studioso che riuscì ad ottenere nel suo Paese una notorietà che andava ben al di là degli ambienti specialistici di chi si occupa di musicologia, etnomusicologia o scienze antropologiche e sociali. Non credo che ci sia stato un altro etnomusicologo che mai abbia ottenuto, nel proprio paese, un grado di notorietà paragonabile a quello raggiunto da Leydi in Italia. Lo si leggeva in riviste e giornali, lo si ascoltava alla radio o alla televisione e quindi anche le persone di media cultura, attraverso la sua presenza, cominciarono a farsi un’idea dell’etnomusicologia, un’idea che si identificava sostanzialmente con le attività e gli argomenti di cui Leydi amava parlare e con cui sapeva intrattenere anche il grande pubblico.

 

Questo particolarissimo “caso Leydi”, lo si spiega ricordando che Roberto Leydi fu certamente professore all’Università di Bologna, già a partire dal 1973, ma non si limitò ad essere un professore universitario. Descriverlo solamente come tale sarebbe quindi assai limitativo. Leydi era infatti arrivato allo studio della musica tradizionale attraverso una lunga serie di esperienze che iniziarono con il giornalismo. Ancora giovanissimo egli fu critico musicale e cronista sia al quotidiano Avanti che al settimanale L’Europeo, entrambi con la redazione a Milano. In questa città Leydi era giunto da Ivrea, in Piemonte, dov’era nato, nel 1928. La Milano di allora era una città estremamente vitale, attraversata da grandi fermenti di rinnovamento culturale animati dal desiderio di compensare le chiusure imposte dal regime fascista per venti anni e quindi di recuperare il tempo perduto. Milano era inoltre non solo la città che dettava all’Italia i ritmi della ripresa economica ma anche quelli del recupero dei rapporti culturali con l’Europa. Sull’onda di questo desiderio di rinascita culturale era stato fondato nella capitale lombarda, nel 1947, da Giorgio Strehler e da Paolo Grassi, il Piccolo Teatro di Milano. Attraverso l’amicizia con Giorgio Strehler, Roberto Leydi collaborò col Piccolo Teatro, che divenne ben presto internazionalmente noto, nella veste di consulente musicale per gli allestimenti dei lavori di Bertold Brecht. Sempre a Milano qualche anno dopo, nel 1955, fu fondato lo Studio di Fonologia della RAI - Radiotelevisione Italiana (che poi continuò ad esistere fino al 1984-85). Inizialmente era nato per facilitare la sonorizzazione dei programmi radiofonici, ma divenne ben presto, con la collaborazione di Luciano Berio, Bruno Maderna, Umberto Eco e Roberto Leydi, il centro di produzione della musica elettronica in Italia. Fu così che Roberto Leydi legò pure il suo nome alle prime produzioni che uscirono dallo Studio di Fonologia scrivendo i testi per Mimusique n. 2 con musica di Luciano Berio (1955) e Ritratto di città con musica di Bruno Maderna (1955) che fu il primo lavoro italiano di musica elettronica e concreta. Con Maderna, arrangiatore e direttore, Leydi curò anche l’edizione di due dischi LP contenenti canzoni di Kurt Weill, interpretate da Laura Betti. A questo punto Leydi era ormai un uomo attivo su numerosi fronti nel mondo dello spettacolo. Tra l’altro, si occupò in questo ambito anche di “cabaret”, genere a cui diede un contributo di rinnovamento, fornendo spunti e idee di ogni tipo, per esempio, alle cantanti Milly e Milva, e al cantante-autore Enzo Jannacci (questi sono tutti nomi notissimi in Italia) e poi al pianista e compositore Gino Negri. Ma questi sono solamente alcuni dei personaggi del mondo della canzone e dello spettacolo italiano che incontrarono Roberto Leydi nel corso della loro carriera e che, spesso, in lui trovarono un impulso per sviluppare la propria arte in direzioni nuove e fino ad allora inedite. E così, dopo essere stato attivo a livelli diversi e in settori differenti nel mondo dello spettacolo Leydi si trovò anche, per qualche tempo, ad essere il direttore della Scuola del Piccolo Teatro di Milano. Così ho raccontato come, ben prima di diventare uno studioso e un professore d’università, Roberto Leydi abbia sviluppato una carriera intensa e di successo, con la quale aveva già inciso assai visibilmente sulla vita culturale della nuova Italia del secondo dopoguerra e aveva quindi già acquisito quel grado di notorietà che il mondo dello spettacolo può dare.

 

Dopo avere accennato alle sue attività giornalistiche, a quelle di autore di testi per musiche sperimentali, a quelle esercitate nel mondo del teatro e della canzone, c’è ancora un altro aspetto del lavoro di Roberto Leydi che è cruciale ricordare perché è poi quello che effettivamente avviò il suo futuro ingresso nel campo della ricerca etnomusicale. Si tratta di un aspetto del suo lavoro legato al fatto che l’Italia degli anni ’60 stava subendo un processo di trasformazione drastico, e anche per molti versi doloroso e traumatico, da paese prevalentemente rurale e contadino a paese industrializzato. C’era allora, per esempio, un forte emigrazione interna dal sud, povero e agricolo, verso le città del nord come Torino e Milano le cui grandi industrie avevano bisogno di mano d’opera. C’erano quindi decine di migliaia di persone sradicate dalla loro regione di origine che andavano a vivere in quartieri dormitorio alla periferia delle grandi città con tutti i problemi familiari, economici, sociali che ciò comportava. Questi problemi gravavano naturalmente sulla vita politica del Paese in cui i partiti di Sinistra (che avevano attivamente partecipato prima alla resistenza contro il nazismo e, poi, alla stesura della costituzione, e che si era trovata successivamente del tutto estromessa dal potere) avvertivano una reale e pressante necessità di fare sentire la propria voce. In una situazione del genere, la consapevolezza del tipo di critica sociale che avrebbe potuto esprimersi nel teatro e nella canzone orientò ben presto Roberto Leydi, e altri studiosi che si riconoscevano nella sinistra politica, verso lo studio e il recupero delle espressioni musicali degli ambienti contadini e del proletariato urbano (si trattava di quelle che il filosofo Antonio Gramsci aveva definito le “classi subalterne”). Nel contesto italiano di quegli anni, caratterizzati da un’aspra contrapposizione anche sindacale e culturale fra Destra e Sinistra, le canzoni che provenivano dagli ambienti “subalterni” si profilavano con una chiara connotazione di protesta e di critica sociale.

E’ ben noto ai lettori dei Cahiers de musiques traditionelles che già sin dall’Ottocento quello che per molto tempo si è chiamato “canto popolare” era stato subito identificato come un fenomeno legato agli strati più poveri e socialmente marginali della società (rispetto alla distribuzione del potere), quelli in cui l’alfabetizzazione era parziale o addirittura assente e in cui quindi dominavano i modi della trasmissione orale nell’ambito della storia, della musica, della poesia, delle leggende, ecc. Nel Novecento, a partire dagli anni ’50 prima negli Stati Uniti d’America, e poi in buona parte del mondo occidentale, la Sinistra politica si dedicò alla promozione e alla diffusione delle forme di cultura di cui queste “classi subalterne” erano portatrici, con la convinzione che queste forme di cultura esprimessero (in modo implicito ma a volte anche in modo esplicito) una visione del mondo differente la quale, per il suo stesso esistere, rivendicava un modo diverso di organizzare la società. Questo atteggiamento della Sinistra politica era dunque ben diverso da quello dei romantici che cercavano nel mondo “popolare” le radici etnico-spirituali del popolo inteso come “nazione”. In Italia però, come ho accennato in precedenza, lo studio della musica popolare sviluppato in funzione di una definizione della cultura nazionale era mancato quasi del tutto.

 

Si può dire quindi che il “folk music revival” si manifestò in Italia in un momento storico di conflitti politici, sociali e sindacali particolarmente accesi, e che grazie all’impegno degli intellettuali di ispirazione marxista, si fece per la scoperta e lo studio della musica tradizionale Italiana, con qualche decennio di ritardo, quello che il Romanticismo non era riuscito a fare. Si può aggiungere anche che, quello che per gli intellettuali dell’Ottocento impegnati nello sforzo di fare dell’Italia una nazione era un difetto (cioè la forte regionalità degli stili, forme e pratiche delle musiche tradizionali della Penisola), dal nuovo punto di vista di chi voleva invece mostrare che le classi emarginate della nazione hanno una loro propria cultura, diversificata da regione a regione, divenne una ricchezza – un tesoro da scoprire e da valorizzare. Di questo “folk revival” Italiano Roberto Leydi fu uno dei promotori più attivi e significativi. In quanto tale partecipò assiduamente ai lavori dei gruppi Nuovo Canzoniere Italiano (da lui fondato con Gianni Bosio nel 1962) e Almanacco Popolare (nato nel 1968) e nessuno meglio di lui poteva, come in effetti fece, curare l’edizione di un libro che raccontasse e spiegasse il “folk music revival” italiano come fenomeno nel suo complesso: Il Folk music revival (Palermo, Sellerio, 1972). Si tratta di un libro che è forse perfino più interessante da leggere oggi, di quanto lo fosse all’epoca della sua pubblicazione.

 

Naturalmente Roberto Leydi non fu il solo intellettuale a dare materiali e forma al il “folk revival”, ma tra le persone della sua generazione generazione fu però l’unico a sapere fare crescere questo sua impegno in una carriera scientifica e accademica di alto profilo. In una prima fase il lavoro di raccolta di canti “popolari” (di argomento politico e sociale) si riversò e si espresse in un contributo a spettacoli alternativi che segnarono emblematicamente i fermenti politici degli anni ’60. Si trattava di riproporre aspetti della cultura tradizionale, forme di folklore, in modo da poterle utilizzare in situazioni comunicati moderne, urbane, tali da costituire esse stesse forme di interpretazione del proprio senso e significato. In altre parole, si trattava di quello che a volte si diceva “folklore ricostruito”, espressione che non è da intendere in senso spregiativo, dato che segnala il nuovo bisogno di conservare questo patrimonio tradizionale non più come materiale da museo ma, invece, dandogli una nuova vita (quella che Walter Wiora chiamava “zweites Dasein”) all’interno di quelle forme di cultura di cui si alimenta la società urbana e industriale. Tra gli spettacoli connotati in questo senso vanno ricordati i lavori teatrali Milanin Milanon (Milano, 1962, con Filippo Crivelli), Pietà l’è morta (Parma, 1964, con Giovanni Pirelli e Filippo Crivelli) e Sentite buona gente (Milano, 1967, con Diego Carpitella e Alberto Negrin). Ma quello che ebbe maggiore impatto fu probabilmente Bella ciao (Spoleto, 1964, ancora con Filippo Crivelli e Franco Fortini) che fu presentato fra contrasti, polemiche, e perfino denunce penali al Festival dei due Mondi di Spoleto, di recente fondato dal compositore italo-americano Gian Carlo Menotti. Tutti questi lavori utilizzavano materiali derivati dalla cultura popolare che numerosi studiosi avevano via via raccolto “sul campo”. Ne risultava qualcosa di fortemente nuovo e dall’effetto provocatorio. In questi spettacoli, infatti, il pubblico borghese di allora vedeva portati sulla scena quei canti della vita contadina e proletaria che fino a quel momento la cultura ufficiale non aveva ritenuto degni di particolare attenzione. L’impatto che essi ebbero sulla cultura italiana di allora e poi lo scandalo, addirittura, provocato da Bella Ciao (che prendeva il titolo da una canzone tradizionale che aveva subito molte trasformazioni e che infine perfino Ives Montand inserì nel suo repertorio) fu forse qualcosa di paragonabile, ma in fondo addirittura maggiore, a quello provocato nel 1893 in America da Antonin Dvorak quando sostenne che il futuro musicale degli Stati Uniti avrebbe trovato le sue radici nei canti afroamericani, quei canti che per l’élite culturale di allora, di formazione prettamente europea, non erano altro che “slave songs”!

 

Dallo studio dei canti politici e sociali a quello della musica tradizionale tout court, il passo fu breve e fu, per Roberto Leydi, un passo irreversibile. Sulla scia del lavoro di Alan Lomax (che era venuto a fare ricerca in Italia nel 1954-55), Leydi approdò ben presto a quella che oramai in tutto il mondo si chiamava “etnomusicologia”, e che diventò da allora in poi, la sua attività preminente. Negli anni 1965-1968 realizzò, con il contributo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, una campagna di raccolta di canzoni narrative nell’Italia Settentrionale (quelle che in Inglese si dicono “ballads” e in Italia anche si chiamano “canti epico-lirici”). In seguito condusse una mole impressionante di ricerche non solo sulla musica e sui canti popolari italiani, ma anche sulle tradizioni musicali di altre nazioni europee (Francia, Grecia, Scozia e Spagna) e dell’Africa del Nord. Sarebbe difficile ricordare tutte le ricerche sul campo a cui egli partecipò direttamente, o quelle che progettò e coordinò aiutato dalla collaborazione di colleghi più giovani e suoi studenti ed ex studenti: dai contadini delle valli piemontesi, alle “mondine” della bassa padana (così si chiamavano le donne che nelle risaie raccoglievano il riso), agli artigiani del meridione, spingendosi spesso anche in altri paesi (tra cui va ricordato in particolare il suo contributo allo studio della musica Greca). Raccolse così una cospicua quantità di documenti sonori (di cui in questi mesi si sta facendo l’inventario) che alimentarono le sue numerosissime pubblicazioni. All’interno dei tanti repertori da lui studiati sono pure interessanti gli aspetti specifici da lui presi in considerazione: a volte lo scopo della ricerca era la pura documentazione, a volte era l’esame del processo di generazione delle varianti, in qualche altro caso il bersaglio erano delle questioni organologiche, altre volte poi arrivava a studiare la canzone italiana e, come dovrebbe forse essere indispensabile per ogni musicologo, la musica jazz, che del Novecento, è stata una della novità più macroscopiche. Notevoli sono stati infatti i suoi contributi alla diffusione della conoscenza della musica jazz. Insieme a Pino Maffei collaborò all’Enciclopedia del jazz di Giancarlo Testoni, Arrigo Polillo e Giuseppe Barazzetta (Milano, Messaggerie Musicali, 1953), nel 1961 diede alle stampe una biografia di Sarah Vaughan e curò le edizioni italiane dei volumi di Iain Lang, Il jazz (Milano, Mondadori, 1950) e René Chalupt, La vita appassionata di Gershwin (Milano, Nuova Accademia, 1964). Fu anche redattore della rivista Jazz Hot, le cui copertine portavano i disegni di Max Huber.

 

Un buon modo per ricordare quale sia stato l’orizzonte degli interessi antropologico-musicali di Roberto Leydi può essere adesso quello di prendere in esame alcune delle sue pubblicazioni più note. Le scelgo tra quelli che io stesso ho letto, man mano che furono pubblicate, e alle quali sono affettivamente legato perché, soprattutto le prime, che lessi quando ero molto giovane, hanno contribuito non poco ad orientarmi sulla strada dei miei studi successivi. Si vedrà, tra l’altro, che sono tutte pubblicazioni dirette non solo al pubblico accademico (le sue prime furono scritte tra l’altro quando Leydi probabilmente non immaginava ancora che un giorno avrebbe intrapreso una carriera universitaria) ma anche a quello assai più vasto (e in un certo senso più importante) delle persone generalmente colte. Si vedrà anche che sono tutte pubblicazioni che hanno un carattere di novità per il pubblico italiano e, a volte, non solo per quello, pubblicazioni che colgono qualche tendenza culturale che si manifesta e si afferma, diciamo così, nel mondo reale e non necessariamente solo in quello universitario.

 

La prima pubblicazione che mi sembra interessante e significativa è del 1958: Eroi e fuorilegge nella ballata americana. In un ambiente, come quello italiano, che cominciava a consumare avidamente i film “western” di fattura Hollywoodiana (il famosissimo High Noon con Gary Cooper era uscito nel 1952) era un’eccellente idea quella di mostrare che l’epopea del West e della colonizzazione aveva lasciato importanti tracce nel canto popolare e che quindi quanto gli europei vedevano sullo schermo si ricollegava ad un retroterra di storia e di narrativa che non era solo quella degli storici ma anche quella della gente comune che si raccontava, anche cantando, le vicende vissute dai propri padri, nonni e bisnonni. Negli Stati Uniti la questione era ben nota, una letteratura sterminata se ne era occupata, ma non era così in Italia e in Europa dove, allora come oggi, spesso i prodotti che provengono dall’America sono assorbiti senza consapevolezza dell’humus su cui sono nati e si sono sviluppati. Sospetto che fu il lavoro di preparazione di questo libro che portò Leydi a conoscere la consistenza di una letteratura anglo-americana che si occupava di canto popolare e che poi estendeva i propri interessi a tutte quelle altre tradizioni che diventarono l’oggetto di interesse dell’etnomusicologia. Erano infatti quelli gli anni in cui la conoscenza della letteratura antropologico-musicale anglo-americana era di cruciale importanza. Si consideri che nel 1954 l’International Folk Music Council (ora International Council for Traditional Music), dopo una lunga discussione aveva adottato una definizione di “folk music” che per qualche decennio rimase quella di riferimento. Si consideri anche che proprio nel 1955 era nata negli Stati Uniti, fondata, tra gli altri, da Alan P. Merriam, Bruno Nettl e Myczyslaw  Kolinski la “Society for Ethnomusicology” che rimpiazzava idealmente la “Gesellschaft für vergleichende Musikwissenschaft” fondata a Berlino nel lontano 1930.

 

Una seconda tappa significativa è rappresentata da Canti sociali italiani, 1963, una raccolta di canti giacobini, repubblicani, antirisorgimentali, di protesta post-unitaria, contro la guerra e il servizio militare. In questo repertorio ci sono le vere radici di Roberto Leydi, nel canto politico e nel suo impegno di uomo di sinistra. Si tratta di un lavoro nato in contemporanea e in simbiosi con gli spettacoli teatrali di cui ho detto poc’anzi, che nacquero proprio agli inizi degli anni ’60.

 

Poi viene Musica popolare e musica primitiva, nel 1960. Qualche anno prima, nel 1956, Bruno Nettl aveva pubblicato qualcosa di abbastanza simile (Music in primitive culture) che probabilmente fece da modello, ma la scelta era significativa perché il contesto culturale italiano di allora era ben diverso da quello americano, in cui gli studi di antropologia avevano acquisito solidi spazi nelle università, tale da fare dell’antropologia qualcosa di cui, come della psicoanalisi, le persone colte parlavano anche durante le loro quotidiane conversazioni. La pubblicazione di un tale libro, in Italia, era dunque particolarmente coraggiosa, perché rappresentava qualcosa di simile ad una meteora, un asteroide, che pioveva dal cielo, come da un mondo esterno, portando argomenti e informazioni su questioni che, fino ad allora, non avevano ricevuto alcuna attenzione. E’ interessante quindi che Roberto Leydi in quel momento decidesse di portare all’attenzione del pubblico italiano l’argomento “musica primitiva” (pochi anni dopo, come sappiamo, il termine cadde in disuso) e al tempo stesso sentisse di collegarlo a quello di “musica popolare”. Nella stessa tradizione anglo-americana (con le sue radici tedesche nella Scuola Berlinese di Hornbostel) i due ambiti erano visti come sostanzialmente separati, anche perché quello della “musica popolare” era stato coltivato da studiosi (p. es. Francis James Child, Cecil Sharp, Bertrand H. Bronson) il cui orizzonte non si estendeva alle musiche delle culture tribali extraeuropee (come nel caso invece di Franz Boas, Gorge Herzog, Mieczyslaw Kolinski). Questo libro che era e rimase unico nel panorama europeo era probabilmente già un segnale per gli studiosi italiani, un segnale che stava ad indicare come fosse utile e necessario occuparsi di entrambi i settori.

 

Due altre pubblicazioni che assolutamente sono da segnalare, perché confermano la rabdomantica sensibilità, da parte di Leydi, per quanto concerne la scelta degli argomenti è il Dizionario della musica popolare europea, pubblicato con Sandra Mantovani nel 1970 e I canti popolari italiani, pubblicato nel 1973, pure con Sandra Mantovani e con l’aiuto di Cristina Pederiva. Si tratta di due libri interessanti per gli studiosi ma che corrispondevano in modo particolare anche alla curiosità del pubblico italiano di allora, di un pubblico relativamente vasto, di sapere qualcosa di più sulla musica “popolare”. Questo desiderio piuttosto diffuso ci dice qualcosa sull’entità del fenomeno “folk revival” in Italia e, quindi, sul suo impatto sociale. Siamo infatti nel momento in cui il “revival” italiano aveva assunto una visibilità tale da essere praticamente osservabile da tutti. Anche coloro che non erano interessati e che non se ne sentivano coinvolti in alcun modo, non potevano far a meno di conoscerne l’esistenza: giornali, riviste, spettacoli (spesso, come abbiamo visto, anche firmati da Roberto Leydi) rendevano conto della vita e degli sviluppi di questo fenomeno il cui momento massimo durò addirittura una decina di anni. Pure questi due volumi sono rimasti unici nel loro genere sia nel panorama editoriale italiano che in quello europeo. Nulla di veramente simile è uscito in Francia, Germania o Spagna. Mentre il dizionario tratta, in ordine alfabetico, praticamente di tutto (strumenti forme, pratiche della musica tradizionale europea). Il volume sui canti italiani, infatti, non è per nulla una raccolta in senso tradizionale,  ma piuttosto una scelta di brani raccolti sul campo in varie parti d’Italia, rappresentativi dello stile di diverse regioni, in trascrizione eurocolta, con annotazioni sulla forma, genere di appartenenza, prassi esecutiva e, come per le musiche della Sardegna e della Liguria, in cui è riconoscibile una grossa componente di estemporaneità, anche allora informazioni sul processo compositivo (in altre parole: sul quadro normativo entro il quale si realizza l’improvvisazione). 

 

Ho ricordato finora tutte pubblicazioni sui generis. Roberto Leydi ne fece però anche una, ad un certo punto, che di necessità si inseriva in una tradizione, in un filone precostituito. Parlo della sua “voce”, per il New Grove Dictionary del 1980 dedicata alla musica tradizionale italiana. Si potrebbe osservare che le voci riguardanti le musiche tradizionali della Penisola italiana comparse nelle successive edizioni del Grove, raccontino proprio la storia dell’etnomusicologia italiana. La prima (1954), di Alfredo Bonaccorsi, trattava sostanzialmente delle tracce di musica popolare riscontrabili nel repertorio italiano colto del Medioevo e del Rinascimento. Siamo nel periodo in cui la grande riscoperta delle tradizioni contemporanee stava proprio avvenendo, ma Alfredo Bonaccorsi non ne poteva ancora essere al corrente. Una successiva “voce” sull’argomento (nel 1961), fu scritta da Diego Carpitella che aveva personalmente partecipato alla spedizione di Alan Lomax attraverso l’Italia e vi aveva contribuito in modo significativo. Era quindi in grado di presentare e spiegare le grandi scoperte che si erano fatte durante quella campaga di ricerca sul campo che è rimasta uno dei momenti storici più importanti dell’etnomusicologia italiana. Finalmente si potevano descrivere quei repertori tradizionali della Penisola che fino ad allora erano conosciuti solo in modo frammentario e superficiale. Poi viene proprio il contributo di Roberto Leydi, nel 1980, in un’epoca quindi in cui il quadro generale si era molto arricchito - grazie anche a tutte le ricerche che lui aveva personalmente condotto, o a cui aveva collaborato o che aveva organizzato. Una nuova immagine dell’Italia musicale appare da questa sua “voce”. Nell’ultima edizione del New Grove (2001) il contributo è di Tullia Magrini, e in questo vediamo oramai l’arrivo di modi nuovi di studio e di analisi dei processi formativi di alcuni repertori. Nuove strade, nuovi metodi vengono messi alla prova, tenendo conto di una realtà che è oramai molto differente da quella dell’Italia agricola e rurale degli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale.

 

Le due ultime pubblicazioni che desidero citare in questo mio tentativo di ricordare l’opera di Roberto Leydi mi servono a sottolineare come tra i suoi interessi musicologici ci fossero anche i collegamenti tra il mondo della musica tradizionale con quello della musica eurocolta e quindi della “storia della musica”. Di particolare importanza al riguardo è stata l’attenzione da lui rivolta alla ricezione del repertorio operistico nel mondo popolare (mi riferisco in particolare a „Diffusione e volgarizzazione", in L. Bianconi e G. Pestelli, a cura di, Storia dell‘opera italiana, Vol. VI: Teorie e tecniche, immagini e fantasmi, Torino, EDT, 1988, pp. 301-448). Sono studi che consentono di vedere come la tradizione dell’opera italiana dell’Ottocento fosse solo in parte un fenomeno che coinvolgeva quegli ambienti cittadini che potevano frequentare i teatri. C’era anche una circolazione di melodie operistiche negli ambienti in cui la musica si tramandava oralmente e c’era poi la grande diffusione e popolarizzazione del repertorio melodrammatico attraverso le bande di strumenti a fiato che erano presenti in quasi tutti i piccoli paesi sia dell’Italia settentrionale che meridionale e financo i piccoli carillon che si vendevano per adornare i salotti delle famiglie della classe media. „Diffusione e volgarizzazione", in particolare, è uno studio che guarda agli scambi tra l’ambito dell’oralità e quello della musica scritta con prospettiva del tutto diversa da quella del positivismo tedesco e di John Meier e Hans Naumann che parlarono di abgesunkenes Kulturgut (cioè di bene della cultura “alta”, caduto in ambito folklorico e in questo ambito distorto). Leydi rende invece evidente l’aspetto creativo insito nella genesi di queste forme di scambio e in effetti la Rezeptionstheorie non la cita nemmeno; difficile dire se ciò sia una forma di implicita polemica specifica o semplicemente una sua refrattarietà generale a considerare le teorizzazioni provenienti dalla cultura germanica che spesso i suoi silenzi al riguardo lasciano trapelare.

E poi c’è il volume nel quale credo Leydi espresse meglio la sua maturità di studioso:  L’altra musica il cui sottotitolo è: Etnomusicologia, come abbiamo incontrato e creduto di conoscere le musiche delle tradizioni popolari ed etniche, 1991. Chi leggendo questo titolo fosse potato a pensare che si tratti di qualcosa di simile al noto libro di Frank Llewellin Harrison, Time, Place and Music: An Anthology of Ethnomusicological Observation c. 1550 to c. 1800, che raccoglie scritti di viaggiatori come Jean de Léry e da Jean-Baptiste Du Halde che ci raccontano le loro impressioni sulle “altre musiche”, sappia che quello di Roberto Leydi e tutt’altro genere di cosa. Si tratta infatti, in parte, di una storia dell’etnomusicologia vista con gli occhi di un europeo che vuole rivalutare figure di studiosi (quali per esempio, Tiersot, Brailoiu) a cui la letteratura tedesca e anglo-americana dell’etnomusicologia dedica ben poca attenzione. Si tratta di un lavoro che, oltre a ciò, vuole rivendicare un ruolo importante alla storia dell’etnomusicologia europea, ruolo a cui nel mondo sia tedesco che anglo-americano non era stato dato adeguato riconoscimento: l’etnomusicologia sviluppata in Francia, l’Italia, e nei paesi che fino a qualche anno fa dicevano dell’Est Europeo. E’ questo un volume che contiene una infinità di informazioni importanti e utili e, al tempo stesso esprime anche lo sforzo di inquadrare tutto in una grande prospettiva storica, in una misura come mai prima Leydi aveva tentato. Al tempo stesso questo libro ricostruisce la storia dell’etnomusicologia attraverso eventi che sono solitamente ricordati quasi solo come “aneddotica” etnomusicale: p. es. le reazioni di Debussy e di Tiersot alla musica indonesiana ascoltata all’Esposizione Universale del 1889, i viaggi di Percy Grainger, le elaborazioni di canti popolari di Brahms, la melodia cinese contenuta nel Dictionnaire de musique di Jean-Jacques Rousseau, etc., etc. A poco a poco attraverso questi “aneddoti” emerge non solo una storia inedita dell’etnomusicologia,  ma emergono anche tutti i problemi centrali che questa ha dovuto affrontare. Soprattutto, e questa è sicuramente la cosa più insolita e stimolante, Leydi a poco a poco mostra come lo studio delle “altre musiche” non sia qualcosa che può rimanere isolata nel proprio ghetto ma deve necessariamente comportare un riesame dell’estetica e dei modi di studiare anche quello che si dice il filone letterato, “colto” della musica europea. A volere sintetizzare tutto questo con uno slogan si potrebbe prendere proprio il titolo di un breve capitolo di questo libro che legge così: “Anche la tradizione scritta ha la sua tradizione orale”! In definitiva L’altra musica costituisce un’eccellente testimonianza della doppia competenza dell’autore, sia sul versante dell’etnomusicologia che di quello della musicologia storica, perché il volume costruisce un vero e proprio ponte tra l’approccio storico e quello etno-antropologico. In virtù di questi suoi studi, oltre che a causa dei contatti di collaborazione che aveva avuto con alcuni dei protagonisti della musica contemporanea italiana, Roberto Leydi era quindi un etnomusicologo, e non ce ne sono molti,  perfettamente in grado di dialogare, su di un piano di eguale competenza, con i musicologi di formazione storica.

 

Da svizzero quale sono e da abitante del Canton Ticino in particolare, vorrei dire anche che la Svizzera italiana ha beneficiato non poco dei contributi di Roberto Leydi, non solo per il suo spiccato interesse per la cultura delle regioni alpine a cui dedicò varie trattazioni che toccano da vicino questa realtà, ma anche per la sua presenza nei programmi della Radio Televisione della Svizzera Italiana che è documentata fin dal 1969 e che divenne regolare a partire dagli Anni ’ 70. La radio era per lui uno strumento in grado di far rivivere nell’immediata portata comunicativa le testimonianze sonore della cultura popolare che il pubblico della Svizzera italiana, con lui, ha avuto spesso il privilegio di ascoltare come primizie. Pochi mesi prima di morire Roberto Leydi decise di lasciare proprio al Canton Ticino, e in particolare al Centro di Dialettologia ed etnografia (CDE) che ha sede a Bellinzona, la sua straordinaria collezione di materiali sulla musica e la cultura popolare. Si tratta di un lascito molto importante, che consiste in circa 650 strumenti musicali, seimila volumi di interesse etnografico e musicologico (oltre a duemila documenti cartacei), diecimila tra dischi e CD e 1400 nastri (il numero preciso non è ancora accertato) che testimoniano oltre tremila campagne di ricerca sul campo. Al Canton Ticino spetta quindi adesso il grande compito non solo di non dimenticare Roberto Leydi ma, anche e soprattutto, di valorizzare i materiali che ha lasciato, mettendoli a disposizione degli studiosi svizzeri, italiani e di ogni paese. Sarà questo il miglior modo per dimostrare tangibilmente la riconoscenza che gli si deve per avere fatto della Svizzera italiana una specie di sua seconda patria.

 

Una cosa ancora mi piace ricordare prima di concludere. Si tratta di qualcosa che, a mio modo di vedere, rende ancora più affascinante la figura di Roberto Leydi: ed è che questo giornalista, critico musicale, autore di testi teatrali e musicali e professore universitario non aveva in realtà i soliti titoli accademici che oggigiorno hanno quasi tutti. Credo che se gli fosse stata posta la domanda “come mai?”, avrebbe probabilmente risposto nello stesso modo in cui pare Benedetto Croce abbia risposto a chi gli chiese come mai non si era laureato in storia o filosofia: “Non ne ho avuto il tempo”! Viene da riflettere che, spesso, le persone di forte talento e motivazione non hanno veramente bisogno della scuola, perché sanno essere i loro propri maestri. Roberto Leydi fu maestro a se stesso e molti altri e nel frattempo accumulò nel corso della vita, lo si può dire perché è letteralmente vero, più di una carriera. Viene da pensare al grande satirico viennese Karl Kraus e alla sua perentoria affermazione: “non si vive nemmeno una volta!”. E’ questa sicuramente un’affermazione che Kraus sicuramente non avrebbe potuto applicare a Roberto Leydi il quale invece, da ogni punto di vista, visse davvero assai più di una volta. E nel ricordare un uomo che visse più vite si può solo concludere con le sagge parole con cui il grande teorico della musica Gioseffo Zarlino portò a compimento le sue famose Istituzioni Harmoniche del 1558: "Assai cose si potrebbe dire oltra di queste"…!


Una bibliografia e discografia selettiva per conoscere Roberto Leydi

 

Roberto Leydi ha prodotto un numero grandissimo di publicazioni, libri, saggi, e anche articoli di giornale, prefazioni e poi interviste televisive e commenti a edizioni discografiche di importanza scientifica. Dare un inventario completo delle sue pubblicazioni è non solo difficile ma, al momento attuale, addirittura impossibile perché non ne esiste un inventario completo. Quello che segue in questa bibliografia selettiva è probabilmente sufficiente a dare un’idea dell’orizzonte dei suoi interessi e propone in ogni caso gli scritti che hanno avuto maggiore diffusione e impatto nel mondo della cultura.


Bibliografia

 

Eroi e fuorilegge nella ballata americana, Milano, Ricordi 1958.

Musica popolare e musica primitiva, Torino, 1960.

La musica del primitivi, Milano, 1961

“Precisazioni su ‘Mahagonny’ e altre questioni a proposito di Kurt Weill', Rassegna Musicale, xxxii (1962),

    pagg. 195-209

Canti sociali italiani, Ed. Avanti, Milano, 1963

con S. Mantovani, Dizionario della musica popolare europea, Milano, Bompiani, 1970.

(a cura di), Il Folk music revival, Palermo, Sellerio, 1972

con S. Mantovani and C. Pederiva, I canti popolari italiani, Milano, Mondadori, 1973.

(a cura di), Bergamo e il suo territorio, Mondo popolare in Lombardia, Milano, Quaderni di documentazione

     regionale della rivista “Cronache della Regione Lombardia”, 1974 (con contributi di R. Leydi, A. Fumagalli,

     L. Ebalginelli, P. Ghidoli, I. Sordi, B. Foppolo, G. Sanga).

con B. Pianta (a cura di), Brescia e il suo territorio, Mondo popolare in Lombardia 2, Milano, Silvana Editoriale,

     1976 (con contributi di R. Leydi, I. Sordi, B. Pianta, S. Fontana, P. Ghidoli, F. Romano, S. Fontana, S.

     Poni, G. Sanga, T. Saffioti).

"Appunti per lo studio della ballata popolare in Piemonte", Ricerche musicali, (1977), pp. 82-118.

con G. Sanga (a cura di), Como e il suo territorio, Mondo Popolare in Lombardia 4, Milano, Silvana, 1978 (con

     contributi di R. Leydi, C. Melazzi,  I. Sordi, E. Silvestrini, P. Sassu, G.B. Gianola, G. Sanga, G. Bertolotti, F.

     Bralla, C. Butti, T. Saffioti).

con Guido Bertolotti (a cura di), Cremona e il suo territorio, Mondo popolare in Lombardia, Milano, Silvana

     Editoriale, 1979 (con contributi di R. Leydi, G. Bertolotti, G. Reina, S. Spini, S. Mantovani, G. Ferrari, R.

     Saccani, S. Talamazzini, G. Genesi, G. Sanga).

"Italy (Folk music)", in Stanley Sadie (ed.), The New Grove Dictionary of Music and Musicians, Vol. IX,

    London, Macmillan Publishers, 1980, pp. 382-392.

La musica popolare a Creta, Milano, Ricordi, 1983.

"Musica e musiche della tradizione alpina", in Alberto Colzani,  (ed.), Musica, dialetti e tradizioni popolari

     nell'arco alpino: Atti del convegno di Studi sul tema 'Cultura popolare dell'arco alpino', Montagnola, 29

     giugno 1985, Lugano, ricerche Musicali nella Svizzera Italiana, 1987, pp. 21-38.

con Febo Guizzi, Le zampogne in Italia, Milano, Ricordi, 1985.

„Diffusione e volgarizzazione", in L. Bianconi e G. Pestelli (a cura di), Storia dell‘opera italiana, Vol. VI: Teorie

     e tecniche, immagini e fantasmi, Torino, EDT, 1988, pp. 301-448. 
Canti e musiche popolari italiane, Milano, 1990.

L'altra musica, Milano, Giunti-Ricordi, 1991.

“Italy”, in H.  Myers (ed.), Ethnomusicology: Historical and Regional Studies,  Londra, 1993) pagg. 125-9

Cante bergera: la ballata piemontese dal repertorio di Teresa Viarengo, Vigevano, 1995.

(a cura di) Guida alla musica popolare in Italia – Forme e strutture, Lucca Libreria musicale italiana, 1996

    (con contributi di R. Leydi, T. Magrini, I. Macchiarella, P. Staro, N. Staiti).

con Febo Guizzi, Gli strumenti musicali e l'etnografia italiana 1881-1911, Lucca, Libreria Musicale Italiana,

     Edizione Alia Musica, 1996.

Canzoni popolari del Piemonte. La raccolta inedita di Leone Sinigaglia (a cura di R. Leydi con la collaborazione

     di Lidia Benone, Elena Bergomi e Ignazio Macchiarella), Vigevano, Diakronia, 1998.

(a cura di) Leo Levi, Canti tradizionali e tradizioni liturgiche - Ricerche e studi sulle tradizioni musicali ebraiche

     e sui loro rapporti con il canto cristiano 1954-1971, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2002.


Discografia

 

(a cura di) con B. Pianta, La zampogna. Irlanda, Scozia, Bretagna, Galizia. Albatros

(a cura di) con B. Pianta, La zampogna in Italia e le launeddas, Albatros  VPA 8149, 1973

(a cura di) con F.Crivelli, Le canzoni di Bella Ciao, Dischi del Sole, 1975

(a cura di), Bergamo e il suo territorio, Albatros VPA 8222 RL, 1975

(a cura di), Brescia e il suo territorio, Albatros VPA 8223 RL, 1975
(a cura di) Roberto Leydi, Como e il suo territorio, Albatros VPA 8299 RL, 1976

(a cura di) con G. Mezzani, I cantastorie di Pavia, Albatros VPA 8341 RL, 1977

(a cura di) con Alberto Fumagalli, Montanari in Val Brembana. Il gruppo di Santa Croce, Albatros VPA 8428

    RL, 1978

(a cura di) con Febo Guizzi, Zampogne, Italia, 1, Albatros VPA 8472, 1980

(a cura di) con Febo Guizzi, Zampogne, Italia, 2, Albatros VPA 8482, 1981

(a cura di) Italia volume 1: I balli, gli strumenti, i canti religiosi, Albatros

(a cura di) Italia volume 2: La canzone narrativa, lo spettacolo popolare, Albatros

(a cura di) Italia volume 3: Il canto lirico e satirico, la polivocalità, Albatros

(a cura di) con Franco Coggiola, Il cavaliere crudele. La ballata popolare in Piemonte e la sua diffusione

     nell'Italia settentrionale e centrale, Dischi del Sole

(a cura di) con P. Sassu, Efisio Melis (Launeddas), [reissue of commercial 78 rpm records Grammofono/La

     Voce del Padrone, 1930 - 1937] Albatros VPA 848 [anche Cd Silex] 1984

(a cura di) con P. Arcangeli, R. Morelli, P. Sassu, C. Oltolina, Canti liturgici di tradizione orale [box di 4 dischi]

     Albatros ALB 21, 1988

(a cura di) Zampogne - Italian bag-pipes ; Latium, Molise, Campanie, Basilicate, Calabre et Sicile, Silex

     Y225111, 1995

(a cura di) con Sandra Mantovani, Donne della Pianura del Po, Audivis Ethnic B 6846, 1997

(a cura di) con Tullia Magrini, Vocal Music in Crete, CD with booklet, Smithsonian-Folkways SFW 40437, 2000