Conoscenza musicale: la risata di Beethoven e la voce di Tyagaraia (1)



Our knowledge is vast and impressive...

Our ignorance is boundless and overwhelming

(Sir Karl R. Popper)


Cosa sappiano veramente sulla musica? E come lo sappiamo? Come arriviamo a saperlo? E chi veramente lo sa? Cosa realmente è conoscibile del fatto musicale? Questa conoscenza come viene classificata, categorizzata e da chi? In quali modi può essere magari inibita, taciuta, marginalizzata? In quale maniera la si può trasmettere e insegnare? Tutte queste sono davvero delle gran belle domande, domande da fare tremare – come diceva Dante – le vene e i polsi. Non aspettatevi dunque chiare ed esaurienti risposte nelle poche righe di cui è composto questo articolino. Quello che in breve vorrei spiegare, con qualche esemplificazione, è questo: se parte della nostra ignoranza musicale risulta dalla estrema complessità del concetto di “musica” e dei territori che esso abbraccia, un’altra parte, certamente più piccola, ma non trascurabile, deriva da malavoglia, disattenzione e sciattoneria intellettuale. 

Possiamo dire che ogni forma di conoscenza sia egualmente desiderabile? Non lo so, ma è sicuramente vero che non tutta la conoscenza è egualmente desiderata e ricercata. Non tutta la conoscenza è in egual misura prestigiosa da possedere. Il Cristianesimo ha spesso considerato alcune forme del conoscere come “vanità” o “peccato”. Friedrich Schiller parlava della ricerca scientifica come di qualcosa che può condurre a quello che lui chiamava Entzauberung der Welt (disincanto del mondo). Si può anche discutere se la conoscenza potenzialmente utile debba essere prioritaria rispetto a quella che non promette di esserlo. Io direi in ogni caso che qualunque conoscenza, una volta acquisita, varrebbe la pena di tenercela cara e utilizzarla. Ma non è sempre così facile o automatico come potrebbe sembrare. In effetti gli storici della scienza Robert Proctor and Londa Schiebinger chiamano Agnotologia lo studio del perché non conosciamo o non conosciamo più alcune cose che sono decisamente alla nostra portata e che magari una volta conoscevamo bene. In alter parole ci dicono che l’ignoranza è spesso un vero e proprio “prodotto culturale”. In altre parole ancora: le culture (e qui si intende le “culture” in senso antropologico) non solo producono conoscenza, ma producono anche…ignoranza!


In ambito musicale, per esempio, spesso manchiamo di acquisire conoscenza, o magari addirittura ce la perdiamo per strada, quando si tratta di “conoscenza pratica” invece che di “conoscenza discorsiva”. Il mio professore di composizione sapeva produrre musica stupenda con la stessa facilità con cui io mi bevo una tazzina di caffè. Ma questo suo talento solo in parte era trasmissibile per contatto e per imitazione. Nulla questo mio professore sapeva dire o spiegare di come il suo cervello potesse produrre cose di qualità artistica così elevata. Questo tipo di conoscenza fintanto che l’artista vive la si può estrapolare in arte dal suo comportamento, dai suoi modi di agire, ma si perde irrimediabilmente con la sua morte. 

Ma sono tanti i modi in cui la conoscenza musicale si può perdere per disattenzione o trascuratezza. Per esempio, quando ci si dimentica che la musica non è necessariamente fatta per essere ascoltata, ma piuttosto esperita nel produrla. Il Clavicembalo ben temperato di Bach e il repertorio del flauto giapponese detto Shakuachi (spesso usato per la meditazione Zen), per citare due esempi assai lontani tra loro, appartengono a questa categoria – ascoltarli non basta proprio e non sono dunque per tutti. 

La conoscenza viene spesso mancata in un’incredibile varietà di modi, alcuni addirittura divertenti. Si racconta per esempio che l’etnomusicologo Jaap Kunst (1891-1960), colui che coniò la parola etno-musicologia, non riuscì a capire alcune cose di quella musica indonesiana detta Gamelan che tanto amava, semplicemente perché i musicisti di quel paese gli volevano tanto bene, e non avevano dunque il cuore di dirgli che numerose sue idee sulla loro musica erano…sbagliate! 

Parte della nostra conoscenza musicale è poi ancorata al nostro senso fisico di essere in un particolare e luogo e momento, in presenza di suono organizzato e di percepirlo anche col nostro corpo (ciò che Heidegger chiamava Dasein). La nostra cultura è l’unica ad avere formulato il concetto di “musica assoluta”; non c’è dunque da meravigliarci se spesso dimentichiamo che essa è a volte prodotta per essere percepita in modo viscerale, piuttosto che per una contemplazione astratta, intellettuale, o di emozione de-corporeizzata (tanto è vero che in Europa oggigiorno ascoltiamo parecchia musica Africa che in Africa, invece di essere ascoltata, viene invece ballata). Ad alcuni di noi può essere capitato di avere ballato il valzer, e di avere dunque un’idea di quali sensazioni fisiche esso possa generare. Ma sicuramente nessuno di noi ha mai ballato una ciaccona, una danza che aveva forti connotazioni erotiche che al tempo di Bach erano ancora presenti nella mente e nel corpo della gente a cui capitava di ascoltare la vecchia danza che aveva cessato di essere effettivamente ballata (si diceva in Italia che “nel ballo della ciaccona sta il segreto della vita bona”!). È quindi impossibile per noi avere un’idea del potere evocativo che questa danza allora possedeva. Ecco un caso di conoscenza interamente perduta. 

La conoscenza si perde pure quando i campi di studio si separano tra di loro. Quello a cui penso in primo luogo è che la “musica” (in qualunque modo si voglia definire il fenomeno) è “natura” prima ancora di esser “cultura”; quando allora la studiamo in quanto cultura il livello naturale del fenomeno scompare dal nostro orizzonte e, per quanto approfondito dalle scienze matematiche, fisiche e biologiche, le loro acquisizioni sono raramente integrabili a quelle della musicologia. Si perde conoscenza anche quando gli stessi studi musicali si specializzano, prendono direzioni diverse e si dimenticano l’uno dell’altro: gli storici della musica si disinteressano di etnomusicologia e gli etnomusicologi ricambiano cordialmente il loro disinteresse. Ma sapremmo tanto di più se lavorassero insieme!

Gli stessi etnomusicologi, purtroppo bisogna dirlo, poco si curano degli insegnanti di musica nella scuola primaria, che oggi si trovano in classe ragazzi di diversa provenienza geografia e culturale, e che proprio dagli etnomusicologi  dovrebbero essere informati su come rapportarsi con giovani individui che nella prima infanzia hanno udito ben altri suoni da quelli che costituiscono il panorama sonoro del paese in cui sono emigrati. L’etnomusicologia possiede conoscenze utili al riguardo, ma non vengono divulgate e non sono quindi utilizzabili da chi ne avrebbe proprio bisogno. 

C’è poi il caso della bio-musicologia o zoo-musicologia che sta nascendo ad opera degli studiosi di comportamento animale. Sappiamo oggi che nel regno animale sono coltivate forme di suono organizzato (musica se volete) che viene culturalmente trasmessa e sviluppata in modo differente da gruppi separati di individui che appartengono alla stessa specie – siamo quindi di fronte ad un fenomeno culturale e non solo naturale. Inutile dire che i musicologi storici (che scrivono dotti articoli su quante volte Schubert si sia beccato il raffreddore) e gli etnomusicologi (che producono accurate statistiche sulle misure dei pifferi utilizzati in Tailandia) non si interessano di queste cose! Una forma di conoscenza semplicemente ignorata. 

Dicevo proprio all’inizio che, per l’appunto, la conoscenza può essere a volte disattivata, resa non-operativa, in modo tale da non produrre alcun impatto: la si lascia riposare sulla scaffale. Pensate, possediamo ormai più di cento anni di documentazione sonora: il ricco suono del violino di Fritz Kreisler; il violoncellista Pablo Casals e tutte le note che tralasciava per mantenere meglio una pulsazione metrica regolare; i tanti errori che il pianista Alfred Cortot riusciva a collezionare nell’esecuzione di un singolo brano!

Verrebbe da pensare che tutte queste registrazioni fonografiche siano utilizzate per comprendere come la musica del repertorio classico venisse vissuta ed eseguita all’inizio del XX secolo – ma non è affatto così. Nessuno ha la minima idea su come Bach eseguisse o dirigesse la propria musica, Ma noi oggi possiamo addirittura ascoltare come Saint Saëns, Grieg, Leoncavallo, Mahler, Paderewski, Debussy, Strauss, Reger, Hindemith, Busoni, Elgar eseguivano la loro. Eppure non ascolta nessuno. Nessuna esecuzione contemporanea di Grieg prende in minima considerazione il modo in cui Grieg eseguiva la sua stessa musica (con enorme libertà di tempo, inesattezze nella durata di note ce sullo spartito appaiono eguali, ecc.). Le registrazioni ci sono ma i musicisti di oggi rifiutano quello che (loro considerano) il cattivo gusto di Grieg, Rachmaninov e Debussy quando suonavano il loro pianoforte. Nessuno che oggi osasse suonare la loro musica come loro stessi la eseguivano otterrebbe mai un diploma di pianoforte in un conservatorio di buona reputazione. L’autenticità storica può essere sbandierata, ma poi viene messa nel cestino se entra in confitto con il senso estetico del nostro tempo: ancora un caso di conoscenza ignorata. 

Lo avevo detto anche all’inizio che è arduo affermare se le conoscenze utili siano per principio da preferire a quelle che non promettono di esserlo. Quando parlo di conoscenze inutili o non immediatamente utili non penso necessariamente a cose intrinsecamente banali (come rispondere alla domanda di quanti peli abbi il gatto del nostro vicino), ma penso piuttosto a conoscenze capaci di generare un certo piacere nell’apprenderle; un piacere che a livello individuale può influenzare il nostro rapporto con l’arte. A questo proposito posso solo citare esempi personali. Come disse una volta lo scrittore americano Henry Thoreau: “Non parlerei tanto spesso di me stesso, se ci fossero altre persone che io conosca altrettanto bene.” Ci sono, per me, infinite cose che desidererei sapere, anche se magari a voi che mi leggete tutte queste vi lasciano totalmente indifferenti. Due esempi: io sono cresciuto ascoltando musica di Beethoven, e veramente mi piacerebbe sapere di quest’uomo che in musica esprimeva tanto umorismo, come sapesse ridere e quale grado di empatia umana, quale grado di calore, la sua risata sapesse suscitare. Più avanti, quando più grandicello, iniziai ad ascoltare molta musica classica Indiana, musica in cui l’inflessione di ogni singola nota è davvero importante, addirittura essenziale. Per questa ragione, quando penso al grande musicista carnatico Sri Tyagaraja (1767-1847), autore di più di 800 canzoni (più di quante Schubert ne abbia mai scritto) allora vorrei davvero poter sentire il tono e la qualità della sua voce. Si tratta, naturalmente, di desideri impossibili, che non saranno mai appagabili. E ciò naturalmente prova, se ma ce ne fosse stato alcun bisogno, che non tutta la conoscenza desiderabile e realmente attingibile; e tutta quelle che invece è acquisibile non ci consola affatto di quella che non lo è e che non lo sarà mai. È questa la tragedia che André Malraux chiamava con queste semplici parole: la condition humaine.


NOTE


(1) Questo articolo è la traduzione con qualche aggiunta e precisazione di un intervento che l’autore fu invitato a presentare al Keynote Panel del convegno annuale del British Forum for Ethnomusicology, tenutosi ad Oxford, nei giorni 8-11 Aprile del 2010. In una versione sintetica è comparso sulla rivista ticinese Verifiche, no. 4, Settembre 2010, 21-22.



BIBLIOGRAFIA



Michel Cazenave, Dictionnaire de l'ignorance. Paris : Albin Michel, 1998. 


Michael Hanlon, 10 Questions Science Can't Answer Yet; a Guide to the Scientific Wilderness. London: MacMillan, 2007.

Una McGovern, Chambers Dictionary of the Unexplained. Chambers Harrap Publishers Ltd., 2007. 


Henrietta Moore (ed.), The Future of Anthropological Knowledge. London: Routledge 1996.


Robert Proctor und Londa Schiebinger (eds.). Agnotology: The Making and Unmaking of Ignorance. Stanford University Press, 2008. 


Charles Seeger, “On the Moods of a Music-Logic”, Journal of the American Musicological Society, XIII(1960), pp. 224-261. 


Ayyam Sureau, Qu'est-ce qu'on ne sait pas? Paris : Gallimard, 1995.



DISCOGRAFIA


Famous Composers Performing their Own Works (Saint Saëns, Grieg, Leoncavallo, Mahler, Paderewski, Debussy, Strauss, Reger, Hindemith, Nikisch, Stevenhagen, Degreef, Lhevinne, D'Albert, Busoni, von Dohnanyi, Landowska, Petri, Schnabel, Backhaus, Fischer, Gieseking), CD Zyx Classic 3001/2/3.


Welte-Mignon, Grieg, Mahler, Skrjabin, Debussy, Saint Saëns spielen eigene Werke, CD, Intercord INT 860.855.