Leonardo D'Amico. Filmare la musica. Roma: Carocci Editore, 2012. (1)
Recensione apparsa in: Cahiers d'ethnomusicologie, 26(2014) 312-315.
Questo è un buon libro, assai interessante per gli studiosi di etnomusicologia che non abbiano ancora praticato e/o riflettuto (e, come dice Leonardo D'Amico, molti di noi non lo hanno ancora
fatto) sulla grande questione della documentazione visiva del far musica; una documentazione che oramai la tecnologia mette alla portata di tutti a costi minimi. Il tema scelto e affrontato
dall'autore è davvero importante e il suo libro, lo dico subito, riesce a dare una overview dell'intera problematica legata alla documentazione (audio-)visiva della musica. È un peccato che sia
uscito in lingua italiana e dunque in una lingua poco accessibile alla maggior parte della comunità ethnomusicologica internazionale.
Dice bene l'autore che la registrazione audiovisiva non è ancora considerata una conditio sine qua non della ricerca
etnomusicologica. In effetti c'è davvero domandarsi perché. Forse una delle ragioni è da ricercare nella radicata avversione per la fisicità e per il corpo che il cristianesimo sin dai suoi inizi
ha instillato nella nostra cultura; una avversione per il corpo che ci ha poi condotto all'idea che la musica possa essere concepita senza il corpo, decorporeizzata, ed esaminata dunque come
prodotto sonoro in sé e per sé. Non mi sembra sia senza significato il fatto che, quando in Europa si ascolta musica africana (quella, per esempio, di Youssou N'Dour), in Europa la si “ascolta”,
mentre in Africa la si “danza”. Forse questa idea, che la musica possa esistere separata dal corpo, ancora tanto salda nella subcultura della musica che diciamo “classica” (si tratta
fondamentalmente di musica decorporeizzata, da ascoltare in silenzio e senza mai reagire col proprio corpo) si riverbera in certa misura anche nel mondo dell'etnomusicologia. Pensiamo così che
anche le musiche del mondo si possano ascoltare senza “vedere” cosa faccia il corpo del music-maker, e come reagisca il corpo di coloro che ricevono la sua musica.
Proprio all'inizio D'Amico afferma che “Vedere la musica e non solo ascoltarla è uno dei principi fondamentali per approfondire la conoscenza di tradizioni musicali appartenenti a culture di
tradizione orale.” (p. 10) A quel punto a me verrebbe da aggiungere che lo stesso si può dire delle culture musicali scritte, anche di quella europea, dato che, come Roberto Leydi spesso amava
ricordare, anche le tradizioni scritte si appoggiano e non possono fare a meno di una tradizione orale (Leydi 1991). Forse anche la musica “classica” andrebbe studiata con l'aiuto di
documentazione visiva, e ne scopriremmo, credo, aspetti del suo collegamento con il mondo del sociale che il solo suono non rivela, e quelle risposte corporee che, se pur inibite, in qualche modo
si manifestano pur sempre.
L'autore ha ragione, e vale la pena di rimarcarlo. Finora la documentazione visiva non ha avuto in etnomusicologia lo spazio che sarebbe stato ovvio immaginare. Oggi sembra quasi assurdo. È
indicativo di questo il fatto che un manuale classico di ricerca sul campo come quello di Marcia Herndon e Norma McLeod dedichi parecchio spazio alla registrazione del suono ma niente affatto
alla documentazione visiva (Herndon et McLeod 1983); anche e un noto manuale di ricerca sul campo uscito pochi anni dopo, dedicato a folkloristi e antropologi, dedica due capitoli alla
fotografia, due alla registrazione del suono e uno (ma è pur sempre un progresso) alla documentazione cinematografica (Jackson 1986).
Naturalmente, Leonardo D'Amico mette in evidenza la potenziale, o intenzionale, polifunzionalità della documentazione visiva,
enumerando i diversi modi possibili di produrla e di utilizzarla. Ci spiega come il documento visivo possa essere un atto di conservazione nei confronti di repertori e pratiche in pericolo di
estinzione; può essere un inventario di documenti ad uso del ricercatore (un equivalente moderno dei quaderni su cui prendevano appunti); può essere un prodotto scientifico vero e proprio, con o
senza il complemento di analisi e commento scritto; può essere un documentario realizzato a fini divulgativi. L'autore, almeno a livello di “tipo ideale” ama distinguere tra documentario
“etnomusicale” e documentario “etnomusicologico”: il primo assolve ad una funzione primariamente documentaria e descrittiva, il secondo sarebbe uno strumento di investigazione che aiuta a
produrre risposte a domande sul come e perché determinate pratiche musicali vengano poste in essere e realizzate.
Posso dare un'idea di come il libro riesca a dare una efficace overview dell'intera problematica legata alla documentazione-comunicazione visiva del fare musica, riportando il titolo delle
sezioni in cui si articola: 1. Il documentario etnomusicale ed etnomusicologico; 2. Gli stili del documentario etnomusicologico; 3. Analisi etnomusicologica della documentazione audiovisiva; 4.
Il documentario etnomusicale tra cinema e televisione. All'interno di queste sezioni si trovano capitoletti dedicati agli stili documentaristi di specifici studiosi (Diego Carpitella, Jean Rouch,
Gilbert Rouget, Hugo Zemp, Gerhard Kubik, Regula Qureshi) e a quelli adottati da centri di ricerca importanti come il CNRS francese o il IWF tedesco. Nel libro vengono anche discussi argomenti
appetitosi ed attuali, come quello della divulgazione, della world music, della docu-fiction e dell'etno-clip.
D'Amico cita molto spesso, appropriatamente, Mantle Hood, che fu uno dei primi etnomusicologi a sottolineare l'importanza della documentazione visiva, in un'epoca, gli anni '70, in cui ben
pochi etnomusicologi la realizzavano. È interessante verificare da queste citazioni come i problemi che Mantle Hood allora aveva indicato rimangano perfettamente attuali. È una piccola pecca del
libro, ma è proprio il compito del recensore notare queste cose che, quando D'Amico cita il libro più noto di Mantle Hood, The Ethnomusicologist, si riferisce sempre alla sua prima
edizione (Hood 1971) invece che alla seconda (Hood 1982). Sentirei di non assolvere completamente il mio dovere di recensore se non segnalassi anche quali sarebbero, secondo me, alcune altre
piccole pecche di questa trattazione. Ricompare nel libro il luogo comune che la globalizzazione produca standarizzazione e, come si ama dire in italiano, “omologazione” (p. 15). Se questo
sicuramente può avvenire ad alcuni livelli (strati) di cultura musicale, n esistono altri in cui avvienne il contrario. Un libro di Bruno Nettl scritto già parecchi anni fa, sostiene infatti che
non ci fosse mai stata tanta diversità musicale nel mondo come allora, proprio grazie all'impetto globale della musica occidentale e di come le culture locali reagiscano, diversificandosi al loro
interno (Nettl 1985). Il libro di Nettl ha avuto poco impatto, forse proprio perché contraddice il mantra anti-globalizzazione che
così spesso amiamo ripetere.
Dal punto di vista della completezza, forse c'è un solo argomento che l'autore non tratta. È quello del grande cinema, del cinema d'autore, a partire dal periodo che immediatamente segue la
Seconda Guerra Mondiale. Si tratta di opere cinematografiche che non avevano alcuna ambizione “etnomusicale” o “etnomusicologica” e che pure contengono al loro interno scene e sequenze di grande
interesse per l'etnomusicologo, anche perché ci mostrano eventi che oramai non hanno più luogo o non piu in quella forma: penso per esempio a “La terra trema”(1948) di Luchino Visconti, “Il
cammino della speranza”(1950) di Pietro Germi e “Stromboli”(1950) di Roberto Rossellini. Questa omissione non è grave perché D'Amico è interessato a discutere il mezzo cinematografico in rapporto
allo studio dell'etnomusicologia che conduciamo oggi.
Il libro è completato da una bella bibliografia. Ancora più bella e sicuramente più utile è però la filmografia, ricca di quasi 500 titoli. È utile avere con essa una overview di quanta
documentazione visiva sia stata prodotta in diverse aree geografiche, ed è utile per chi insegni corsi di etnomusicologia, avere questa risorsa a cui attingere in ambito didattico.
In conclusione, questo è un libro certamente da raccomandare a chiunque si prepari alla ricerca sul campo. Ma vorrei concludere aggiungendo in invito e una esortazione all'autore perché ci dia
prossimamente un ulteriore contributo. Utilizzando l'interesse e la competenza che ha acquisto nell'ambito della documentazione visiva del far musica, forse potrebbe produrre idee e suggerimenti
su come integrare la documentazione visiva con un commento scritto – in modo che le due cose siano funzionali l'una all'altra – in modo da potere creare un formato che renda possibile la
pubblicazione di contributi scientifici nelle riviste elettroniche. Oramai queste stanno proliferando in internet ma presentano sempre contributi che non sono in alcun modo differenti dagli
articoli pubblicati sulle riviste cartacee, con la sola aggiunta di esempi multimediali a cui è possibile accedere opzionalmente. Un nuovo formato, in cui i contributi audio e video siano
integrati al commento scritto e alle analisi del ricercatore, sarà certamente qualcosa a cui dobbiamo arrivare.
(1) Da quando apparve questa recensione il libro è uscito poi in lingua inglese: Leonardo D’Amico. Audiovisual Ethnomusicology. Filming musical cultures. Berna: Peter Lang, 2020. Si tratta di una sostanziale revisione ed espansione dell'originario volume italiano; essa offre una visione più ad ampio raggio di quanto sia esteso l'argomento trattato.
Riferimenti
Herndon, Marcia and Norma McLeod
1983 Field Manual for Ethnomusicology. Norwood, Pa.: Norwood Editions.
Hood, Mantle
1971 The Ethnomusicologist, New York, McGraw Hill.
1982 The Ethnomusicologist. New Edition. The Kent State University Press.
Jackson, Bruce
1986 Fieldwork. Urbana and Chicago: University of Illinois Press.
Leydi, Roberto
1991 “Anche la tradizione scritta ha la sua tradizione orale.” L'altra musica.
Milano: Giunti-Ricordi: 134-142.
Nettl, Bruno
1985 The Western impact on world music, change, adaptation, and survival,
Schirmer Books.