Bruno Nettl e Melinda Russell (a cura di), In the Course of Performance. Studies in the World of Musical Improvisation. Chicago, The University of Chicago Press, 1998.

Recensione pubblicata in Il Saggiatore Musicale, VII (2000), no. 2, pp. 455-462.


 L‘improvvisazione gode della singolare distinzione di essere uno dei fenomeni musicali più diffusi al mondo e, al tempo stesso, uno dei meno documentati, dei meno studiati e, in definitiva, dei meno ben compresi. I curatori di questo volume sono quindi benemeriti nell‘aver aggredito frontalmente un tema che rimane tuttora piuttosto marginale in ambito musicologico. A tanti anni di distanza dai primi sostanziosi contributi di Ernst Ferand (1887-1972), sostanziosi ma preliminari, affrontare oggi questo argomento non pare in fondo meno ambizioso di quanto non fosse allora specie quando, come in questo caso, si desidera inquadrarlo nello scenario globale. Il primo saggio, di Bruno Nettl ("An Art Neglected in Scholarship") spiega le ragioni dell'attenzione relativamente modesta che il fenomeno ha ricevuto sinora. Egli può ben lamentare questa negligenza, perché assai più di altri se ne è occupato. Lo fece, tra l'altro, in un significativo articolo del 1974 ("Thoughts on Improvisation: a Comparative Approach", Musical Quarterly, LX, no. 1, pp. 1-19), poi come curatore di un numero speciale  dalla rivista The World of Music (XXXIII, 1991, no. 3) dedicato all‘argomento e in uno studio, unico nel suo genere, sull'arte improvvisativa di un singolo esecutore che, fortunatamente, ricompare (parzialmente riveduto) alla fine di questo stesso volume.

Nell‘esaminare i motivi del modesto interesse che musicologia e etnomusicologia hanno prestato finora allo studio dell'improvvisazione Nettl si sofferma particolarmente sulle difficoltà metodologiche che l‘argomento presenta. A queste si potrebbe aggiungere quello che dal punto di vista della storia dell‘estetica più facilmente risalta: che la musicologia nacque proprio, quando la prassi dell'improvvisazione era in marcato declino, di pari passo con l‘affermarsi di un‘idea di “storia musicale“ (costituita primariamente, come disse Dahlhaus, dalle “opere importanti, che perdurano nella cultura e nella civiltà musicale del presente“) che indusse a declassare il genere effimero dell'improvvisazione al rango di divertente curiosità. Finché si ritiene che ciò che maggiormente conti non sia l‘atto del “fare“ arte e, ancor meno il contemplarla o il reagire ad essa insieme ad altri ma, invece, solo quello che Walter Benjamin chiama “l‘oggetto isolato, autocontenuto“ che dell‘arte sarebbe “la suprema realtà“, allora ben poco spazio e interesse può esserci per l‘improvvisazione. Solo oggi, con l‘acquisita consapevolezza di quanto essa caratterizzi le musiche di tante aree del pianeta, e di come la registrazione fonografica stia facendo di queste musiche (del jazz, per esempio) tradizioni documentabili con supporti non più cartacei, ma pur sempre tali da fare storia, ecco che comincia a manifestarsi un certo interesse sia estetico che scientifico per il fenomeno.

Tuttora, due sono le idee che più frequentemente vengono espresse sull‘improvvisazione. La prima, ripresa anche da Schoenberg (p. es. nel famoso saggio su Brahms in Style and Idea), è che si tratti essenzialmente di una forma del comporre a velocità accelerata (è interessante che poi lui stesso abbia proposto l‘uso di un metodo compositivo che rende l‘improvvisare semplicemente impossibile). La seconda, come riporta Ingrid Monson proprio all‘inizio del suo contributo a questo volume, è che essa sia un modo di agire in cui, più che in altre forme del far musica, predomini la libertà. Ebbene: questo libro mostra persuasivamente come entrambe queste idee costituirebbero un‘adeguata aggiunta al Dictionnaire des idées reçues di Flaubert ma siano altrimenti troppo approssimative e, in ultima analisi, fuorvianti, per essere accolte in sede di dibattito scientifico. Nel primo caso perché scrittura e oralità sono processi qualitativamente diversi e, nel secondo, perché nell‘improvvisare (pur nelle tante sue varie forme) si ritrova l‘eterna tensione tra le scelte individuali (potenzialmente divergenti o devianti) e l‘autorità di quella cornice di regole, tradizioni e consuetudini determinate dall‘ambiente culturale con la quale i musici devono sempre fare i conti. E quando si improvvisa, con quest‘autorità occorre negoziare in tempo reale.

Si intuisce forse già da questi cenni quanto sia complesso il libro curato da Bruno Nettl e Melinda Russell, anche problematico e per nulla facile da metabolizzare nel suo insieme. E‘ complesso in primo luogo per la varietà delle questioni che affronta, sulla base di dati empirici e costruzioni teoriche sviluppate da autori diversi, in modo sostanzialmente autonomo dai contributi altrui: contributi che riguardano, tra l‘altro, culture musicali antropologicamente distanti. C‘è quindi il rischio che sia letto solo selettivamente, da chi cerca un approfondimento in un ambito specifico tra quelli rappresentati (del resto, non sono molti i musicologi interessati all‘improvvisazione an sich). Ma sarebbe un peccato perché il guadagno che si ricava da una lettura completa è considerevole.   

Nove sono le culture musicali prese in esame: arabo-islamica, afro-latina (salsa), jazz, canto lirico monostrofico italiano, Cina (opera Cantonese), India (musica Carnatica e Hindustani), romanticismo europeo (Clara Schumann), Stati Uniti (giochi infantili afro-americani). Si tratta di un campionamento effettuato da studiosi portatori di talenti multiformi e, va da sé, di altrettanto diversificate esperienze e gradi di sensibilità. Assai varia è quindi la profondità di campo e la messa a fuoco dei loro oggetti di indagine. Ciononostante, emergono questioni di rilevanza generale (memorizzazione, variazione, parafrasi, parodia, ricomposizione, adattamento di materiali pre-composti, conflitto tra originalità e rispetto della tradizione, modalità della comunicazione, comprensibilità dei materiali usati e del trattamento che ne viene fatto, ecc.). Sono questioni che riguardano quasi ogni ambito della musicologia, sia storica che sistematica e che, pur da angolature diverse, un po' tutti gli studiosi si trovano spesso a incrociare. Altrettanto spesso, per mancanza di familiarità specifica con la tematica dell‘improvvisazione, sono indotti a non affrontarle proprio nell‘ambito in cui la loro visibilità è massima: quello dell‘oralità e dell‘estemporaneità. Su come affrontare questi temi il volume di Bruno Nettl e Melinda Russell offre numerosi buoni esempi.

Vale forse ora la pena di indicare che gli autori che contribuiscono al volume sono tutti o americani, o persone che  operano nell‘ambito culturale statunitense, con la sola eccezione dell‘italiana Tullia Magrini. Alcuni tra loro, infatti, Ali Jihad Racy (originariamente libanese), T. Wiswanathan (indiano) e Sau Y. Chan (cinese di Hong Kong), anche se appartengono per nascita alle tradizioni di cui trattano, si sono peraltro formati musicologicamente negli Stati Uniti.

I primi tre saggi, dopo quello introduttivo di Nettl, costituiscono una sezione intitolata "The Concept and Its Ramifications". Stephen Blum nel suo “Recognizing Improvisation“ spiega come nella cultura occidentale il concetto di improvvisazione sia entrato in uso solo in tempi relativamente recenti, solo a partire dall'Ottocento, in effetti. Prima di allora una terminologia ricca e diversificata indicava aspetti specifici di quei fenomeni performativi che il termine "improvvisazione" tenta di conglobare in sé – peraltro, con modesta efficacia. Successivamente, Stephen Blum presenta informazioni provenienti principalmente dall'area culturale arabo-persiana, sia medievale che contemporanea, per mettere in luce con quale articolazione concettuale gli atti, le intenzioni e le esperienze del suonare in risposta a stimoli determinati dall'occasione-funzione possano esser pensati. Comincia così ad emergere uno dei Leitmotive dell‘intera opera: come l‘improvvisazione si attui spesso all‘interno di un sottile gioco di interazioni sociali i cui attori svolgono ruoli molto differenti, più o meno prestigiosi, più o meno attivi, più o meno facilmente visibili, ma tutti finalizzati alla performance. Questo tema della “socialità dell‘improvvisare“ ricompare nel saggio successivo, di Jeff Pressing, significativamente intitolato “Psychological Constraints on Improvisational Expertise and Communication“. Esso offre il punto di vista del cognitivismo ed è l‘unico che, salvo qualche riferimento finale al jazz, tratti di improvvisazione in termini sostanzialmente generali, disancorati dall‘esemplificazione di una tradizione specifica. Fa pure parte della sezione dedicata al chiarimento terminologico, e la conclude, il saggio di R. Anderson Sutton. Esso con il suo titolo pone la domanda “Do Javanese Gamelan Musicians Improvise?“ e nello svolgimento mostra bene come la domanda conduca a porre in discussione le ambigue valenze dello stesso termine “improvvisazione“. La conclusione sarebbe che, se di improvvisazione si vuole parlare, allora ciò che avviene  nel Gamelan è evidentemente qualcosa di nemmeno lontanamente paragonabile a quanto si verifica nel jazz o nella musica classica indiana (quelle che sono considerate tradizioni improvvisative par excellence). R. Anderson Sutton così dice: “If improvisation is understood simply to require some spontaneous decision making by musicians as they perform, then some Javanese musicians do indeed improvise in some instances, but to what extent?“ (p. 69). La questione è rilevante e, visto che una buona discussione scientifica spesso non è altro che il prodotto di un chiarimento terminologico, forse proprio a conclusione di questa sezione avrebbero potuto comparire proposte su come meglio trattare (terminologicamente e concettualmente) le diverse forme dell‘estemporaneo in musica.

Seguono sette saggi che danno corpo alla sezione centrale del volume intitolata “Improvisation as Music and in Culture“ a cui ne succedono altri tre, nella sezione finale, che sono dedicati al comportamento improvvisativo di specifici musicisti (“Studies of Individual Artists“). Non è possibile, a meno di eccedere in lunghezza, rendere giustizia ai loro autori, riferendo ciò che dicono di specifico e di nuovo sulle musiche di cui trattano. Mi accontenterò, ancora una volta, di mettere in evidenza alcuni tratti generali che emergono dal loro discorso. Quello che tutti rendono palpabile è, in primo luogo, come l‘improvvisazione parta sempre da materiali pre-composti e da progetti esecutivi a volte estremamente flessibili, ricchi di possibili alternative, ma in ogni caso sempre noti, almeno a grandi tratti, sia ai musicisti che agli ascoltatori. Proprio la familiarità con i materiali di base e con i progetti che consentono di utilizzarli extempore rende possibile a chi ascolta di nutrire quelle attese che i musicisti spesso soddisfano e talora negano con elementi di sorpresa (quando la performance è un evento unico e irripetibile, le ipotesi di Leonard B. Mayer sulla dinamica dell‘ascolto paiono più calzanti che altrove).

Il far musica estemporaneamente, è implicito in quanto appena osservato, non è quindi mai un‘attività totalmente libera, ma si svolge, come già ricordato, sempre nell‘ambito di confini che sono (anche inconsapevolmente, come è ovvio) diffusamente noti. La parola “improvvisazione“ (che sempre va riferita ad una tradizione, ad un genere, ad una forma del far musica) non è dunque sinonimo di “libertà“ più di quanto non lo siano i termini “blues“, “passacaglia“, “fuga“ o “forma sonata“: tutti rappresentano delle cornici, dei quadri operativi, che determinano la selezione delle tecniche compositive applicabili al loro interno. Inoltre, anche se gli autori non lo dicono a chiare lettere, appare da una visione panoramica dei loro scritti come il termine “improvvisazione“ risulti inadeguato a ben contrassegnare tutte le forme di procedimento compositivo possibili nell'ambito dell'oralità. In definitiva, questa parola, "improvvisazione", è quasi una sicura garanzia di equivoci e fraintendimenti – non solo nel discorso rivolto a profani ma, anche, tra musicisti e musicologi, specialmente quando si esce dall‘ambito del mondo occidentale (se la psichiatria antropologica ci dice che l‘idea stessa di salute e di malattia varia apprezzabilmente da cultura a cultura, non può certo sorprendere che l‘improvvisazione sia concettualizzata in forme diverse secondo le coordinate spazio-temporali). Può sembrare poi una curiosa singolarità l‘osservazione che emerge da alcuni di questi contributi, che proprio nelle tradizioni in cui l‘improvvisazione è costantemente praticata, essa fa parte di una prassi tanto consueta, tanto assimilata concettualmente al far musica tout court, da non suscitare particolare commento da parte di coloro che la producono (vedi p. es. i saggi di Jihad Racy, „Improvisation, Ecstasy, and Performance Dynamics in Arabic Music“ e quello già ricordato di R. Anderson Sutton). Viene in mente a questo proposito John Blacking, quando osservava che di fronte ad un gruppo di persone che conversano amabilmente tra loro, nessuno si sognerebbe di osservare con sorpresa che “stanno improvvisando“, né poi i conversanti stessi hanno mai la consapevolezza di far qualcosa di tanto straordinario da sollecitare una teorizzazione esplicita (anche se il fenomeno, visto dall‘esterno, è tanto meraviglioso da meritarla).

Da tutti questi saggi riemerge poi ancora, con varietà di esemplificazioni, come il processo improvvisativo si nutra, per così dire, di interazioni continue tra i musicisti e il loro pubblico. Questa componente sociale dell‘improvvisare compare in primo piano, particolarmente, nel contributo di Tullia Magrini (“Improvisation and Group Interaction in Italian Lyrical Singing“), in quello di Stephen Slawek (“Terms, Practices, and Processes of Improvisation in Hindustani Instrumental Music“), oltre che nel già ricordato saggio di Ali Jihad Racy. Ma è presente anche in Peter Manuel (“Improvisation in Latin American Dance Music“) che spiega quanto sia cruciale l‘interazione tra i musicisti e come questi siano sensibili  alle manifestazioni umorali dei ballerini. Altrettanto bene, straordinariamente bene anzi, questa dinamica comunicativa tra musicisti e tra musicisti e pubblico è descritta da Chris Smith (“A Sense of the Possible. Miles Davis and the Semiotics of Improvised Performance“) che mette a fuoco questioni di gestualità e di mimica. Ma una performance che nasce, si sviluppa ed acquisisce una sua forma nell‘ambito di una situazione dinamica al cui interno i musicisti agiscono e reagiscono attimo dopo attimo comporta, ovviamente, il rischio da parte dei musicisti di perdere l‘attenzione del pubblico o di perdere, letteralmente per strada, i propri collaboratori. Eve Harwood (“Go on Girl! Improvisation in African-American Girls‘ Singing Games“) si esprime così: „In an environment where there is considerable emphasis on performing in accordance with the stylistic conventions of the existing tradition, improvisation is a form of risk taking, requiring audacity as well as practice“ (p. 123). Per dirlo altrimenti, e  generalizzando un po‘: il piacere di ascoltare musica improvvisata può talora essere analogo all‘emozione che si prova nell‘osservare le evoluzioni dei funamboli del circo con la continua suspence che possano cadere dal trapezio.

Proprio per queste sue connotazioni sociali, così bene rimarcate da tutti gli autori, l‘idea che improvvisare equivalga a una forma del comporre a velocità accelerata, rivela tutta la sua inadeguatezza. Il compositore che “scrive“ la propria musica interagisce con altri musicisti solo in via differita e, quanto al proprio pubblico, di necessità opera sulla base di ipotesi su quale possa essere l‘orizzonte delle sue aspettative. A volte, decide addirittura di mirare ad un pubblico che non esiste ancora, la posterità, che giudichi con il vantaggio di una maggiore distanza e prospettiva storica l‘oggetto musicale da lui prodotto (… a dispetto di tutte le innovazioni musicali emerse nel corso del Novecento, sono numerosi i compositori tuttora legati a questa visione tardo-romantica che chiama in causa “l‘ardua sentenza“ dei posteri). La musica improvvisata, al contrario, vive a ridosso del contingente ed è influenzata da ciò che le avviene intorno. Per questa ragione quando, registrata e riprodotta, non si rivela portatrice di valori duraturi (valori che, come mostra la storia del jazz, può peraltro benissimo riuscire a produrre) forse è proprio perché il voler essere musica adatta al presente può anche comportare la rinuncia ad essere egualmente efficace in altri tempi e altri luoghi.  

Nel mio soffermarmi sui tratti generali che emergono dai diversi saggi del volume, quelli che ritengo possano maggiormente interessare chi non sia calato professionalmente nelle realtà locali che essi descrivono, non vorrei passare sotto silenzio il fatto che molti di essi offrono contributi di conoscenza assai nuovi proprio nel settore di ricerca in cui si inquadrano. Questo è il caso del contributo di Tullia Magrini che mostra come la pregiudiziale letteraria prima e poi la poca dimestichezza degli stessi etnomusicologi con l‘improvvisazione abbia ostacolato per decenni una descrizione adeguata di questo fenomeno camaleontico che è il canto lirico-monostrofico nella Penisola italiana. E‘ uno studio che può aprire la via a un riesame di altri repertori lirici europei (dai dainos della Lituainia, allo Schnadehüpfl o Gsangl delle Alpi Orientali, alla doina o hora lunga della Romania e Moldavia, alla copla spagnola, ecc.). E lo stesso si può dire di altri saggi. Vanno assolutamente ricordati in questo senso quello di Ingrid Monson (“Oh Freedom: George Russell, John Coltrane, and Modal Jazz“) che fornisce un‘assai interessante discussione dei presupposti teorici su cui si è sviluppato il jazz modale, quello di Sau Y. Chan (“Improvisation in Cantonese Opera“) che ci offre una descrizione da insider capace però di parlare in termini comprensibili al lettore occidentale, e poi anche l‘analitica discussione di T. Viswanathan e Jody Cormack (“Melodic Improvisation in Karnatak Music“) di quella che è, forse, la musica più bella al mondo...

Vorrei anche ricordare che i singoli artisti discussi nella sezione conclusiva del volume sono Clara Schumann, Miles Davis, Louis Armstrong, Ravi Shankar e, infine Ali Jihad Racy. Nel suo saggio su Clara Schumann (“Setting the Stage. Clara Schumann‘s Preludes“) Valerie Goertzen getta nuova luce sulla prassi improvvisativa in Germania alla fine dell‘Ottocento (che Clara producesse estemporaneamente preludi e interludi tematicamente collegati ai “pezzi“ scelti per i suoi concerti mostra come l‘opera musicale fosse da lei intesa come un‘entità permeabile – al cui interno si può portare qualcosa e da cui è possibile esportare qualcos‘altro nel brano successivo). Sul saggio di Chris Smith su Miles Davis a cui mi sono già riferito aggiungerò solo che, unitamente a quello di Lawrence Gushee (“The Improvisation of Louis Armstrong“), è uno dei contributi più interessanti e stimolanti che abbia mai letto nell‘ambito del jazz. Lawrence Gushee, medievalista e studioso di Jazz al tempo stesso, grazie alla sua familiarità con questi mondi musicali temporalmente e culturalmente lontani riesce a vedere aspetti del processo compositivo che spesso ad altri sfuggono e, per questo, ricevono poca attenzione. C‘è poi il caso singolare di Stephen Slawek che, pur americano per nascita ed educazione, è anche un esecutore, di non comune talento, di musica indiana classica. Egli combina così nella sua persona tanto il punto di vista dell‘insider che quello dell‘outsider. L‘alternarsi di queste due visuali è costante nelle sue parole. E infine (è appropriato dire last and not least) c‘è lo studio prodotto da Bruno Nettl e Ronald Riddle, negli anni Settanta, su Ali Jihad Racy (autore anche dello studio che apre la seconda parte del volume) qui riportato con poche modifiche. Nettl e Riddle presero in considerazione circa 100 esecuzioni di Jihad Racy (con il buzuq e il nay) effettuate utilizzando lo stesso taqsim. Cose assai interessanti ne emersero su quanto concerne il rapporto tra predicibilità e libertà in queste esecuzioni, così come esso era percepito dal musicista e dai suoi esaminatori.

Si è visto, credo, come il quadro dei fenomeni improvvisativi che emerge dal volume sia alquanto ampio. Ciononostante, ci sono sicuramente ambiti della problematica che esso non prende direttamente in considerazione. In effetti, sono numerosi. Tra questi, per esempio, l‘improvvisazione come modo di trarsi di impaccio nel caso di vuoti di memoria o di note sbagliate (caso in cui Liszt pare fosse assai capace) non emerge visibilmente in nessuno dei saggi. Da un punto di vista analitico nessun riferimento affiora sulla discussione, che fece capo a Frank Tirro, se una performance improvvisata possa e/o debba essere analizzata con procedimenti differenti da quelli usati per una composizione scritta. In generale poi, in questi saggi, non vengono formulate ipotesi analitiche prepotentemente nuove o particolari: ogni autore utilizza i modi e i metodi che gli sono familiari. Non vi compare nemmeno la questione della reazione psico-motoria del musicista che si esprime in forma canalizzata dalle caratteristiche dello strumento che utilizza. E‘ una questione che risulta particolarmente visibile nel caso dei polistrumentisti (p. es. Don Cherry, flautista, trombettista e pianista; Ornette Coleman, sassofonista, trombettista e violinista, Benny Carter, sassofonista e trombettista, ecc.) che non traspongono semplicemente le loro idee da uno strumento all‘altro. Qualcosa su questo, se pur in minima misura, si può ritrovare nello studio su Jahad Racy che suona appunto sia il buzuq che il nay. Insomma, che lo strumento non sia un elemento neutro, inerte, che semplicemente veicoli le idee improvvisative di chi lo maneggia è cosa lapalissiana; ma come esattamente esso interagisca col pensiero musicale di chi lo adopera, mettendo nel sue mani l‘agibilità di Spielfiguren di un certo tipo e non di un altro, rimane ancora da accertare (John Blacking più di altri si era avventurato in questa direzione). Ma non è per non avere trattato anche di queste cose che gli autori meritano una tiratina d‘orecchie. Al contrario, hanno già fatto abbastanza e non è da poco che il loro lavoro offra il panorama più vasto finora tracciato dell‘elusivo fenomeno del far musica estemporaneamente. Certo, al tempo stesso, questo loro lavoro ci rende consapevoli di come quello dell‘improvvisazione sia un territorio che ancora attende una ricognizione che ne accerti l‘esteso perimetro. In biologia esiste un limite basso in prossimità del quale non è concettualmente facile tracciare la soglia della vita (pensiamo ai virus, retrovirus, ecc.), o distinguere ciò che appartiene al regno animale da ciò che rientra invece in quello vegetale; similmente, in numerosi repertori musicali non è agevole riconoscere quanto e cosa sia estemporaneo (e vissuto consapevolmente come tale) e cosa non lo sia. Ecco quindi, ancora una volta, emergere i limiti dell‘utilizzo musicologico del termine “improvvisazione“. In quale misura e con quale grado di consapevolezza qualcosa debba essere il frutto di estemporizzazione perché abbia senso parlare di situazione improvvisativa, rimane una domanda. E‘ una domanda capace di generarne numerose altre: perché, per esempio, si tenda a indicare come improvvisazione solo un‘attività estemporanea che sia rilevabile a livello della macroforma e non quegli interventi che operano nell‘ambito della timbrica, della densità testurale, o come indicano altri saggi (tra cui quello di Tullia Magrini) nel riambientare e ricontestualizzare segmenti di materiale precomposto in progetti compositivi prefigurati (composizione “modulare“, “formulaica“, ecc.). Sicuramente la parola “improvvisazione“ risulta massimamente ambigua quando è usata in astratto, senza riferirla ad una  tradizione specifica di cui siano noti i vincoli che impone: si improvvisa in un determinato alveo stilistico e non nel vuoto. Inoltre gli autori ci aiutano comunque a comprendere che “far musica“ vuol dire sempre, in qualche modo, improvvisare qualcosa, ed è quindi questione di grado e non di presenza o assenza dell‘estemporaneità tout court. Aggiungerei, anche se loro non lo esplicitano, che persino nella musica eurocolta è così; solo che si è tanto abituati a non pensarla in termini improvvisativi (e a ritenere improvvisazione solo ciò che riguarda gli aspetti melodico-armonici di un brano) che a volte ci si sorprende nel constatare quanto differenti possano essere le “interpretazioni“, le ri-esecuzioni, della stessa opera, anche quando prodotte dalla stessa persona in momenti diversi e successivi. Ma non è l‘unica tradizione che, pur contemplando un certo grado di estemporaneità, di fatto non la vive con totale consapevolezza e non la teorizza in alcun modo.

In conclusione: mi pare che gli autori siano riusciti a dare sostanziosi contributi in aree specifiche, approfondendo la problematica dell‘improvvisare in repertori tutto sommato abbastanza ben conosciuti ma nei quali essa meritava una messa a fuoco più accurata. Sono tutti contributi, mi pare, che  raggiungono il livello dell‘eccellenza e, spesso, lo superano anche di numerosi gradi. Sicuramente poi, una valutazione accurata del guadagno conoscitivo che ci viene da questo o quello va lasciata agli specialisti che possono entrare nel merito di questioni specifiche. Mi sento però di dire che nell‘abbordare l‘argomento improvvisazione, nel dare un‘idea panoramica dei problemi che si presentano in ambito musicologico per comprenderne il processo, i meriti di questo lavoro sono considerevoli. Sono tanto grandi in effetti che, a chi volesse tuffarsi in questo straordinariamente affascinante settore di studio, io suggerirei di cominciare, sicuramente, proprio da questo volume.