"Folk Songs": quando è lecito rubacchiare
(Radiotelevisione della Svizzera Italiana, Rete Due - Novecento, Passato e Presente: presentazione del concerto, gennaio 2003)

 


Può forse incuriosire chi non ne sia completamente consapevole, che spesso i compositori fanno i ladruncoli e prendono delle melodie che qualcun altro ha inventato. A volte sono melodie dette "popolari". Cosa sia una melodia "popolare", sarebbe difficile sppiegarlo, e gli stessi compositori in genere non lo sanno bene. Ma sanno una cosa: che di una melodia "popolare" non si conosce l‘autore. E questa, naturalmente, è una buona scusa per non pagarlo. Chiunque prenda un canto popolare e se lo scrive su pentagramma, ne diventa ufficialmente l‘autore e può farsi lui pagare ogni volta che viene ri-eseguito (qui c‘è un problema molto più serio di quanto si possa immaginare). Comunque: questo giochino di rubacchiare melodie qua e là ha anche un suo scopo nobile: quello di offrire agli ascoltatori il piacere di ri-conoscere qualcosa di familiare, trasformato però in qualche modo. Per esempio: una volta un editore scozzese di nome Thomson diede a Beethoven l‘incarico di arrangiare per pianoforte dei canti popolari del suo paese; e lo fece per venderli poi in Gran Bretagna e non certo a Vienna dove nessuno li aveva mai sentiti. Ma da quel momento in poi, con l'inizio della stagione romantica, cose cambiano, e i compositori cominciano a usare canti popolari, non tanto perché il pubblico li possa veramente riconoscere, ma perché così facendo sentono di attingere ad uno strato di musicalità subcutanea, che a loro in sostanza sfugge, e che gli dà l‘impressione di parlare un linguaggio più universale. A questo punto non conta più che il pubblico riconosca l‘origine geografica dei canti utilizzati. Lo stesso Beethoven nel Primo tempo della Sinfonia Pastorale presenta qualcosa di popolaresco, ma che cosa esattamente sia, è difficile dirlo: secondo un certo Josef Canteloube, Beethoven cita un canto popolare dell'Auvergne. Bartók, invece, ritiene si tratti di una danza slavo-meridionale. Il critico musicale inglese Tovey pensa che si tratti di una melodia renana. Ecco dunque che la presenza del "popolare", non più identificabile, cessa di essere un gioco che coinvolge l’ascoltatore. L’ho fatta lunga, ma questo mi serve per accennare adesso che con i Folk Songs di Luciano Berio ci troviamo in una situazione simile. Un famoso studioso di folklore musicale, un certo Cecil Sharp, una volta criticò fortemente quello che Brahms faceva ai canti popolari quando gli capitavano sotto mano. Lo stesso direbbe forse di Luciano Berio. I materiali che lui sceglie, che sono in qualche modo e a diverso titolo "popolari", un po’ un’insalata mista, dimostrano che Luciano Berio non era un musicologo, non era uno studioso. Luciano Berio è solamente (e certamente ci basta e ci avanza) un uomo di Genio. Pazienza. Non ci si può aspettare che il pubblico riconosca il mutettu sardo o la melodia azera basata su di una certa scala maqam per gustarne la traslazione, a cui lui, Luciano Berio, sottopose questi materiali. Non è possibile. Questa musica è da ascoltare come musica di Luciano Berio e nient’altro. Non nuoce peraltro sapere che questo compositore visse gli anni del cosiddetto Folk Music Revival (1960/70) di cui erano attori amici suoi personali, come Roberto Leydi. Non sorprende che gli sia venuto il desiderio di mettere le mani e aguzzare su di essi il progio genio compositivo, su alcuni di quei materiali con cui i suoi amici amavano lavorare.