Storia di Rotella
(ricordi degli anni '50)
Rotella (questo il suo cognome) era un uomo assolutamente normale, di discreta presenza e anche piuttosto simpatico. Certamente era un uomo buono, che mai aveva e mai avrebbe fatto mai male a una mosca. Avrà avuto fra i trenta e i quarant’anni quando lo conobbi nel 1957. Devo essere così generico, così approssimativo, perché a quel tempo io di anni ne avevo solo dieci e – come si sa – ai bambini riesce difficile giudicare l'età degli adulti. Ai bambini gli adulti paiono sempre assai più adulti di quel che realmente sono, quando non paiono addirittura vecchi.
Rotella era uno scapolo, di carattere gioviale, piuttosto dinamico, con i capelli ricci abbondantemente imbrillantinati, come usava allora. Di mestiere faceva l’autista. Ma non era un autista qualsiasi, era l'autista ufficiale di un’agenzia periferica della Banca d’Italia in cui mio padre allora lavorava, in una piccola città dell’Italia meridionale. Questa condizione di autista di banca, in ambito locale, gli conferiva una certa aura di prestigio alla quale teneva assai.
Ho già detto che Rotella era il vero cognome di quest'uomo e non, come si potrebbe anche sospettare, un nomignolo. Il suo nome di battesimo non lo ricordo nemmeno, forse non l’ho mai saputo, proprio perché tutti lo chiamavano Rotella. Io stesso poi, ligio alle istruzioni di mio padre, che imponevano di rivolgermi ai suoi dipendenti col massimo riguardo, lo chiamavo «Signor Rotella». Ma nonostante questa formalità di rapporto devo dire che Rotella fu probabilmente il mio migliore amico durante l'anno che io e la mia famiglia trascorremmo in quella città del Meridione in cui mio padre aveva fatto di tutto per non andare e dove, malgrado ogni sforzo, aveva dovuto accettare di trasferirsi in ossequio ad ordini superiori. Mia madre commentava la cosa filosoficamente, riprendendo le note parole di Dante: «Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare...»
Il fatto è – questo deve essere ben chiaro, perché la storia abbia davvero un senso – che la piccola città dell'Italia meridionale in cui i miei genitori e io ci trovammo a vivere, a differenza di tante altre belle città e cittadine, rinomate turisticamente e disseminate lungo l'Italia mediterranea, era veramente e irrimediabilmente una città brutta e deprimente. Temo lo sia tuttora. Questa città, che chiamerò Cantonaro per non offenderne gli abitanti, era probabilmente – cosi dicevano i miei – la città più brutta che loro avessero mai visto; il che è tutto dire perché erano dei discreti viaggiatori. Questa può sembrare una digressione, ma non lo è. La bruttezza di Cantonaro è cruciale per capire il seguito della storia che sto raccontando. Ciò perché Rotella, nato e cresciuto a Cantonaro e da cui mai si era allontanato, era del tutto inconsapevole di avere trascorso l’intera propria vita in una delle città meno attraenti che la Penisola italiana potesse vantare (e a onor del vero mai fu vantata). Rotella aveva spesso sentito dire, letto, udito alla radio, che l'Italia è un paese bellissimo, le cui città e le cui bellezze naturali sono invidiate in tutto il mondo e che attirano turisti da ogni continente. Egli aveva conseguentemente tratto la conclusione, una specie di sillogismo, che se l'Italia è bellissima, e se Cantonaro fa parte dell'Italia allora, ineluttabilmente, ne derivava che Cantonaro doveva pure essere una città straordinariamente bella.
Rotella era talmente convinto della bellezza della sua città natale che, quando venne ad accogliere la mia famiglia alla più vicina stazione ferroviaria (distante da Cantonaro circa due ore di automobile, con le strade di allora), appena arrivati in città, prima ancora di portarci in albergo, dove desideravamo andare il prima possibile per riposarci di un lungo e disagevole viaggio in treno, volle imporci un breve giro turistico. Nel decantare le inesistenti bellezze del luogo, strade e palazzi la cui vista faceva intristire progressivamente mio padre che già manifestava i sintomi della depressione, rendendolo sempre più sconsolato di avere dovuto accettare questo trasferimento, Rotella ogni tanto, preso dall'entusiasmo, gli diceva: «Guardi Signor Direttore, sembra quasi di essere a Parigi!»
Questa storia, come chi mi ha seguito finora probabilmente inizia a intuire, consta di alcuni segmenti; qualcosa di simile a quei “motivi” di cui parlano i folkloristi quando si riferiscono a quei tratti narrativi in cui le fiabe possono essere decomposte e, spesso, ricomposte, in altre fiabe in cui quegli stessi “motivi”, pur se combinati in modi differenti, sono fondamentalmente gli stessi. Il primo motivo in questa storia è evidentemente il suo attore principale, l'autista di nome “Rotella”, uomo normalissimo che vive in una città di provincia. Il secondo è la città stessa, brutta e inospitale quant’altre mai. Il terzo motivo altro non è che questo amore profondo di Rotella per una città di cui, non avendo termini di confronto, egli non poteva vedere la bruttezza estrema.
A questo punto, però, devo introdurre un ulteriore motivo, quello del cosiddetto “bidone”: il catalizzatore sulla scena che ho descritto e che, come ora dirò, cambierà la vita e la visione del mondo del buon signor Rotella. Sto parlando di una vecchia auto, una Fiat 1100, soprannominata appunto “il bidone” da mio padre perché era tanto vecchia e cadente da rendere grottesco il fatto che la Banca d'Italia – la banca centrale della nazione – la utilizzasse come auto di rappresentanza, seppur in una sua sede periferica (vedi foto alla fine del testo). C'era ben poco da rappresentare con quel bidone. I direttori delle altre banche arrivavano alle cerimonie ufficiali con fior di automobili, Lancia e Alfa Romeo nuove di zecca, e mio padre doveva presentarsi con il buon Rotella al volante di una ansimante 1100 Fiat, che sembrava quasi tenesse la propria anima con i denti. L'imbarazzo, se non proprio la vergogna, era inevitabile. Così fu che mio padre tanto disse e tanto fece che, un bel giorno, l'amministrazione centrale della Banca d’Italia decise di sostituire il bidone con un'auto più nuova o, per dir meglio, meno vecchia. Ma c’era un inghippo: occorreva portare il vecchio bidone a Roma e prelevare, sempre, a Roma la nuova auto di seconda mano. Questo fu il compito di Rotella.
Fu così che, per la prima volta in vita sua, il signor Rotella si mise in auto per intraprendere il viaggio più lungo della sua vita, diretto ad una meta molto al di fuori della sua regione natia. Ma nessuno se ne preoccupò, perché Rotella era notoriamente un eccellente autista, uno di quei guidatori che sentivano a orecchio il regime di giri del motore e riuscivano a cambiar marcia senza usare la frizione; riusciva a parcheggiare impeccabilmente in spazi strettissimi, era insomma un virtuoso del volante che, attento al respiro del motore, riusciva a consumare assai meno benzina di quanta ne avrebbe utilizzata un comune mortale.
Il viaggio ebbe luogo. Rotella tornò a casa con la nuova auto. Come già detto, quella che lui aveva prelevato a Roma non era affatto nuova, aveva solo il pregio di non essere vetusta – tutti si trovarono d'accordo nel soprannominarla “bidoncino”. Ma Rotella non era più la stessa persona. Le esperienze accumulate durante il viaggio lo avevano scosso e avevano lasciato un segno. L’emozione doveva essere stata grande: raggiungere Roma percorrendo una serie di strade strette e tortuose (non era ancora arrivata in Italia l’epoca
delle autostrade) partendo dal profondo sud, non era cosa da poco. Rotella doveva essersi trovato in uno stato di apprensione mai provato prima.
Lui, autista extraordinaire, ebbe perfino un incidente la cui meccanica non riuscì nemmeno spiegare – pare che avesse agganciato in qualche modo il paraurti dell’auto che lo precedeva, quasi un tamponamento. Ma, soprattutto, Rotella aveva visto la Costa Amalfitana e la Città Eterna. Aveva osservato dunque cose bellissime, e aveva ben apprezzato la loro bellezza.
Talmente bene l’aveva notata, da arrivare alla triste e deprimente conclusione di essere nato e di avere vissuto fino a quel momento in un luogo straordinariamente brutto. Fu una delusione tanto cocente che, tornato a casa, il povero Rotella per numerosi giorni non si presentò al lavoro. Era febbricitante e il medico che lo visitò per verificare l'indisposizione non ci capì nulla. Una sola cosa era chiara, Rotella aveva la febbre alta e non aveva voglia di parlare.
Per fortuna, nel giro di qualche giorno la febbre svanì. Rotella tornò al lavoro, ma non era più il sereno e scherzoso scapolone di prima. Ma ben presto, sorprendendo tutti, annunciò la decisione di sposarsi. Le nozze furono celebrate a tambur battente e nel giro di pochi anni gli nacquero prima uno, poi due, tre e, infine, quattro figlioli. A quel punto tornò ad essere allegro e gioviale. Aveva superato il trauma estetico causatogli dal viaggio romano. Aveva trovato, io penso, cedendo a quelle pulsioni riproduttive che fino ad allora aveva scansato, un suo nuovo equilibrio. Tutti coloro che lo conoscevano furono molto contenti per lui. Rotella era davvero una cara persona.
Il “Bidone”