Emilio Sala e un suo recente libro sull'opera - quasi una recensione 

 

 

Il 12 maggio 2025 ebbe luogo a Lugano, alla Biblioteca Cantonale, la presentazione di una recente pubblicazione di Emilio Sala, Professore Ordinario di Musicologia all’Università degli Studi di Milano: Opera, neutro plurale (Milano: Saggiatore, 2024).

 

In quell’occasione, insieme allo scrittore e produttore teatrale Giacomo Agosti, ebbi il piacere di collaborare all’evento. Mi fu così possibile spiegare perché questo libro, pur non cadendo negli ambiti degli studi musicali a me più familiari (etnomusicologia e popular music), mi ha assai interessato e stimolato. Il volume contiene – letteralmente – migliaia di informazioni e riflessioni per nulla scontate. Arrivati all’ultima pagina, dispiace di essere alla fine (e affermando questo non dico poco: si consideri che Samuel Johnson, dopo aver letto Paradise Lost di Milton, dichiarò che, per quanto meraviglioso fosse il poema, un capitolo in più sarebbe stato di troppo).

 

Spiego ora come l’ho abbordato, cominciando come abitualmente  faccio con la bibliografia (per vedere su quali basi l’autore costruisce). E qui la bibliografia è ricchissima. Quasi da sola giustifica la lettura del volume. Contiene tutto ciò che ci si immagina di trovare in uno studio dedicato all’Opera, più tantissimo altro: da Brecht, a Flaiano, a Clifford Geertz, a La Bruyère, e perfino alla Psychologie des Foules di Gustave Le Bon.

 

Poi ho abbordato introduzione e conclusione: due testi che combaciano, direi quasi le due metà di un lavoro che si regge bene autonomamente. Ma, attenzione: le prime pagine introduttive mettono un po’ in allarme. Vi si incontrano, tra gli altri, Mallarmé, Žižek, Lessing, Voltaire, oltre a Roland Barthes e Jacques Lacan. Nei confronti di questi ultimi due – confesso – nutro una consolidata antipatia.  Soprattutto nei confronti del secondo, uno psicoanalista. La mia idea è che gli psicoanalisti sappiano spiegare tutto ma non riescano a provare nulla… Ma per mia fortuna, tirato un profondo respiro, sono riuscito ad andare avanti. Ne valeva la pena.

 

A questo punto sono passato alla parte centrale del volume, cioè al glossario. Tutte le sue voci contengono idee che suggeriscono approfondimenti e stimolano domande. La maggior parte di queste voci si distingue per la sua invitante brevità. Altre, invece, come per esempio quella dedicata al ‘Leitmotiv’, sono dei veri e propri saggi, seppur di contenuta lunghezza. 

Ciò che maggiormente colpisce è che, pur essendo l’Opera il dichiarato punto focale della trattazione, Emilio Sala, frequentemente ricorre alla storia delle altre arti e del cinema in particolare. In altre parole, come i fondatori dei cultural studies e gli studiosi da loro influenzati (p. es. Stuart Hall, Fredric Jameson e Slavoj Žižek) Emilio Sala non distingue pregiudizialmente tra la cosiddetta “alta cultura” e la “popular culture” (termine che qui uso nel senso inteso da Raymond Williams).  

 

Questa lettura ha non poco cambiato il mio rapporto col melodramma. Lo consideravo un genere mantenuto in vita con accanimento terapeutico, a forza di denaro pubblico (dunque con i soldi di coloro che al Teatro d’Opera non sono interessati). Ora sono consapevole di quanto sia più complessa la questione. L’opera, infatti, manifesta oggigiorno connotati di modernità che non sfuggono all’esame di Emilio Sala (discografia, radio, i DVD, gli allestimenti che teatri come il MET trasmettono televisivamente) e che egli mette bene in luce. Inoltre, e forse in questo non ero solo, identificavo l’Opera in musica anche con quel tipo particolare di voce “impostata”, fortemente proiettiva e direzionale, che così poco attrae chi, come me, abita preferibilmente il mondo del jazz, della popular music e del rock. Ebbene, Emilio Sala ci informa che questo tipo di produzione vocale costituisce un aspetto del cantare operistico relativamente recente, nato a fine Ottocento, e che dunque non caratterizza la storia dell’Opera nel suo intero sviluppo storico. In epoche in cui si voleva aumentare il volume degli spettatori, con la necessità di consentire a tutti di ascoltare bene la voce dei cantanti si è sviluppato un modo di proiettare la voce che raggiunge tutti e, nel contempo, ne amplia la tessitura.

 

Piuttosto che entrare nel merito di specifiche voci del glossario, nelle quali il lettore curioso troverà molte sorprese, preferisco adesso segnalare qualcosa a cui il libro accenna, ma che rimane nello sfondo. Si tratta di un persistente tormentone, acutamente sentito nelle scienze sociali e, mi pare, meno negli studi di storia ed estetica della musica europea.  

 

Il busillis risiede in un interrogativo epistemologico: nel domandarsi quanto ampie possano o debbano essere le categorie con cui organizziamo la nostra comprensione della realtà. In altre parole, quali sono, caso per caso, le dimensioni che offrono il maggiore guadagno conoscitivo? Si tratta, evidentemente, di un problema imponente, che però si rivela in tutta la sua problematicità quando, per esempio, in antropologia ed etnomusicologia si intraprende una ricerca sul campo in ambiti culturali non familiari. Qui ci si confronta con un problema di “scala”. In altre parole, la scelta delle categorie è influenzata dalla “scala” che l’osservatore adotta. Sarebbe bello se in questo ambito si potesse applicare l’analisi schenkeriana alle scienze sociali, perché nel suo ambito l’approccio analitico di Heinrich Schenker esamina livelli dimensionali differenti dei brani sotto esame. Quando si arriva alla loro Ursatz e Urlinie, cioè al nucleo tonale di base, “Gimme Shelter” dei Rolling Stones e “Casta Diva” di Bellini appaiono fondamentalmente la stessa cosa. Ma, nel cambiare la scala della mappatura, emergono allora, gradualmente e progressivamente, tutte le differenze. 

 

Emilio Sala discute in questa sua trattazione quanto possa essere estesa, comprensiva, la nozione di “Opera”, gettando lo sguardo financo oltre i confini dell’Occidente. Così facendo esprime indubbiamente la forma mentis di cui tutti noi in questa cultura siamo portatori; vale a dire, tendiamo a raggruppare sotto lo stesso cappello concettuale, quanto più fenomeni sia possibile. Riusciamo a ricondurre a un denominatore comune anche quelli che in superficie paiono disomogenei. Innegabilmente, si tratta di un modo di procedere che nelle scienze della natura ha prodotto risultati spettacolari. Si pensi a J.C. Maxwell che riunì elettricità e magnetismo; si pensi a J.P. Joule e R.J.E. Clausius i quali, mostrando come calore e lavoro meccanico siano modi diversi di trasferire energia, condussero alla formulazione della prima legge della termodinamica; si consideri, infine, come Albert Einstein ci rivelò che spazio, tempo e gravità siano aspetti inscindibili di una stessa realtà. 

 

Ora, da ottant’anni in qua i fisici tentano di riunificare la Relatività Generale e la Meccanica quantistica; due teorie che funzionano perfettamente bene nel loro specifico ambito di applicabilità, ma che altrove si rivelano tra loro inconciliabili. Se l’unificazione non riuscirà, potremo forse dover concludere che non tutte le manifestazioni della natura sono riconducibili a leggi unificanti. Sarebbe una svolta epocale. Tale da farci sospettare che esiste un limite alla possibilità di sussumere fenomeni apparentemente diversi all’interno di uno stesso cappello concettuale.

 

Approdiamo adesso a quelle che Dilthey chiamò Geisteswissenschaften: cioè, le scienze della cultura. Anche qui si pone la domanda: è davvero vantaggioso, nei loro ambiti, ricondurre a un minimo denominatore comune fenomeni per numerosi aspetti dissimili? Il guadagno conoscitivo che se ne trae compensa davvero, a sufficienza, l’oscuramento delle differenze che così si opera? A me sembra che Emilio Sala propenda per il sì, pur manifestando momenti di esitazione. Al meglio delle mie conoscenze, la questione, tanto affascinante quanto complessa, rimane comunque aperta. 

 

Forse un esempio può aiutare a chiarirla meglio: quello dell’Occidente, nel cui ambito culturale chiamiano “musica” tutte le forme di uso sociale del suono. Ma al di là dell’Occidente, le circa 7000 lingue parlate nel pianeta mancano di una parola che corrisponda al termine “musica” e, dunque, mancano del relativo concetto. Il concetto di “musica” non è quindi universale – contrariamente a quanto si ripete pappagallescamente, a dispetto di ogni evidenza (forse che gli occidentali non comprendono le canzoni di Umm Kulthum, il Gagaku giapponese, o il Kronkong indonesiamo?). Le culture che non possiedono questo concetto occidentale (che riflette la nostra inclinazione a produrre macro-concettualizzazioni) utilizzano invece un ricco lessico atto a denotare forme diverse di uso sociale del suono, senza che nessuno avverta l’utilità di riportarle all’interno di una categoria che le comprenda tutte. È interessante notare, a questo punto, come le lingue prive di una parola per dire “musica” non ne abbiano nemmeno una per dire “teatro” e per dire “opera”. Emilio Sala ne è consapevole. Ma ritiene tuttavia stimolante il tentativo di riportare forme differenti di performatività teatral-musicale sotto il cappello concettuale di “Opera”. 

 

In buona sostanza, il busillis riguarda essenzialmente l’applicabilità del metodo comparativo. Nel tardo Ottocento e fino alla Prima Guerra Mondiale, la vergleichende Musikwissenschatf (“musicologia comparata”, sviluppatasi in Germania a fine Ottocento), tendeva a paragonare tutto con tutto – ricercava gli universali della “musicalità” umana (concetto evidentemente etnocentrico). Poi il relativismo culturale professato dalla Scuola di Franz Boas (Margaret Mead, Ruth Benedict e Gregory Bateson) indusse a vedere le culture come tanto intrinsecamente diverse tra loro, da rendere futile ogni confronto. Fu così che, da quando l’antropologia abbracciò il relativismo culturale, la prassi comparativa in questo campo si ridusse significativamente. 

Marcel Detienne, che Emilio Sala appropriatamente prende in conside-razione, era un antropologo che propose una via d’uscita. Detienne considerava il metodo comparativo come uno strumento di analisi utile a comparare perfino l'incomparabile, al fine di cercare le differenze più che le somiglianze. L’idea è interessante perché, in antropologia ci si interessa primariamente alle differenze perché, pur se gli umani hanno tutti due braccia e due gambe, ci si rende subito conto che sono porta-tori di concezioni etiche non conciliabili tra loro (lo affermò già Mon-tesquieu nel De l'esprit des lois, 1748). E quando due tradizioni mani-festano tratti comuni, quasi sempre sono le differenze che contano per chi appartiene ad esse.  

 

È vero che “Le caratteristiche dell’Opera di Pechino sono esattamente le stesse di quelle dell’opera europea”. Ma da etnomusicologo aggiun-gerei che, di fronte alle somiglianze, c’è da domandarsi se nacquero per rispondere ad esigenze simili (convergenza evolutiva) e, se poi rappre-sentano valori centrali in entrambe le culture in esame (dunque, irri-nunciabili), oppure centrali in una delle due e periferici nell’altra (dunque, suscettibili ad eventuale sostituzione). In altre parole, molto dipende da come somiglianze e differenze vengono esperite. Indub-biamente, la questione rimane aperta. Ma è utile rammentarci della sua esistenza.  

 

Qui mi fermo e concludo, augurandomi che questo volume abbia un seguito: so che sta per essere tradotto in inglese, e questa potrebbe esse-re forse l’occasione per espanderlo. Quanto al suo lessico, mi è facile immaginare altre possibili voci, sulle quali mi piacerebbe che l’autore si esprimesse.  

 

Quindi, grazie Emilio per questo poderoso stimolo intellettuale che ci hai regalato.