World Music: proviamo a definirla

 

Che cos’è la “world music”? Una buona domanda, non è vero? Quando si dice “buona domanda”, in genere si intende che non c’è una vera e proprio risposta. In questo caso, invece, la risposta c’è – solo che non si può dare proprio in due parole; perché l’espressione “world music” quando fu coniata ebbe un senso che poi, nell’uso corrente, è andato del tutto perso.

All’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, un certo Robert Brown, professore alla Wesleyan University, inventò la dizione “world music” per etichettare un corso di studi che in altre università si indicava col più paludato termine di “etnomusicologia”. La nuova locuzione, “World Music”, aveva lo scopo di chiarire meglio non solo agli studenti, ma anche agli amministratori accademici e al grande pubblico, cosa in effetti l’etnomusicologia volesse essere: cioè, lo studio di tutte le musiche del pianeta, senza alcuna eccezione. Ma alcuni anni dopo, circa dal 1985, di “World Music” si cominciò a parlare nell’industria discografica, caricando però l’espressione di tutt’altro significato, utilizzandola come etichetta utile a commercializzare quella popular music che avesse origine, almeno in parte, al di fuori dei paesi occidentali. In altre parole, ci si riferiva ad una musica situata tra rock, pop e jazz, con la fecondazione aggiuntiva di influenze extraeuropee. Tra queste, quella africana (a cui peraltro già dobbiamo lo sviluppo di blues, jazz, e buona parte di pop e rock), è gran lunga la più visibile, anche se non mancano apporti di altra provenienza. All’interno di questo contenitore variopinto che chiamiamo oggi “world music” troviamo il Rai dell’Algeria, il canto dei Griots del Mali e della Guinea, l’Afrobeat nigeriano, la musica Juju e Soukous dello Zaire, il Qawwali dal Pakistan, il Soca di Trinidad, la Salsa di New York, eccetera, eccetera. Quello che vistosamente brilla per assenza in questo cocktail, è la musica di Giappone, Cina e di quelle culture amerindie che risultano poco compatibili e amalgamabili con i generi occidentali.

La “World Music”, per il pubblico che la segue, sarebbe una sorta di manifesto di tutti gli anti-razzismi generati dalla nostra cattiva coscienza storica, un manifesto in cui l’ibridazione diventa dogma e sistema. A me sembra che sia in realtà una nuova forma di “esotismo” che il nostro tempo ha prodotto. Lo dico perché il maggiore consumo di “World Music” avviene dove? Nel mondo occidentale! È la cultura occidentale che accetta e filtra dalle altre musiche del pianeta quello che a lei piace. In teoria, qualsiasi tipo di musica può essere “world music”. In pratica, non tutte le musiche ce la fanno, perché chi sceglie, siamo noi, gli euro-occidentali. Il canto degli indiani Navajo o l’orchestra di corte giapponese (che le nostre orecchie trovamo orripilante), non la sentirete mai. In altre parole, la “world music” è molto meno mondiale e molto più occcidentale di quanto dichiara di essere. Ascoltare per credere!