Viaggiare, Viaggiare

 

…dolcemente viaggiare

rallentando per poi accelerare.

con un ritmo di vita nel cuore,

gentilmente, senza strappi al motore…

 

Così cantava Lucio Battisti in una sua canzone, molti anni fa. Si riferiva, evidentemente, al viaggiare automobilistico. E però, lo sappiamo bene, ci sono tanti altri modi di viaggiare, egualmente avvincenti, forse addirittura tanti quanti sono gli esseri umani. Emilio Salgari (1863-1911), che era di personalità sedentaria, diceva che "scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli". Xavier de Maistre (1763-1852) che amava gli orizzonti familiari non si sforzò nemmeno di immaginare quei luoghi lontani ed esotici a cui pensava Salgari, e più prosaicamente esplorò invece ciò che aveva nel raggio di pochi metri; così ci ha lasciato il suo famoso Voyage autour de ma chambre. Hermann Graf Keiserling (1880-1946), che al contrario ambiva ad esplorare l'ignoto andandolo anche a toccare con mano, addirittura disse che "la via più breve per trovare se stessi passa per il giro del mondo" (Der kürzeste Weg zu sich selbst führt um die Welt herum). Questi esempi indicano bene come la parola “viaggio” sia la metafora per eccellenza dell’idea di “scoperta” e di “avventura”. Ogni volta che si parte alla ricerca di qualcosa quindi, anche magari di un’avventura che sia tale solo in senso puramente intellettuale, intraprendiamo con ciò un "viaggio" che in definitiva, come tutti i viaggi, reali, immaginari, o metaforici che essi siano, mira sempre (ambisca o meno a circumnavigare il mondo) alla scoperta di quegli aspetti del nostro stesso essere che ci sono meno noti.

 

E la musica cosa c'entra? C'entra, eccome. C’entra perché l'esperienza musicale è anche, a suo modo, una esperienza di "viaggio", una esperienza di estraniazione (non per nulla in numerose culture la musica è l’elemento scatenante di stati di trance); è una esperienza di estraniazione che consiste nel collocarsi fuori dal mondo della semanticità verbale (in cui anche le immagini possono piuttosto facilmente essere tradotte) per immettersi in un segmento temporale, una specie di tunnel, all’interno del quale sarà solo la logica dei suoni a monopolizzare i nostri pensieri (fu il musicologo Jules Combarieu a dire che "La musique est l'art de penser avec les sons"!). Che si tratti di un’esperienza estraniante se ne ha la riprova nell’avvertire come durante l’ascolto musicale la nostra stessa percezione del tempo venga alterata. Dobbiamo quindi riconoscere ai musicisti anche il potere di riuscire a influenzare, i più mefistofelici persino a controllare (pensiamo per esempio a Richard Wagner), il nostro modo di esperire il tempo - una capacità, davvero al limite della magia, che ci ricorda come in numerose culture il ruolo sociale del musicista coincida di fatto con quello dello sciamano.

 

La musica è viaggio in ogni senso. Essa ci parla dei luoghi in cui è nata, delle tradizioni a cui appartiene perché gli esseri umani, pur se accomunati da bisogni e desideri che sono universali, quando costruiscono il loro mondo sonoro scelgono tecniche e procedimenti che spesso tendono a sottolineare la loro diversità dagli altri, piuttosto che non ciò che con gli altri hanno in comune. Questo lo si vede specialmente quando la musica (che è anche una forma di comportamento, e non solo suono) diviene simbolo e metafora di aspetti, non-musicali, della vita sociale. Per esempio, nella società egualitaria dei pigmei Mbuti nella foresta Ituri dello Zaire nord-orientale si produce musica vocale polifonica in cui la partecipazione di ogni singolo individuo offre un contributo all’insieme che tuttavia non gli consente mai di distinguersi dal gruppo e di emergere. Questa musica corale sembra proprio essere la traduzione simbolica dell’egualitarismo vissuto quotidianamente in quell’ambito sociale proprio come, all’estremo opposto, l’orchestra occidentale (nata nella forma in cui oggi la conosciamo in coincidenza con la rivoluzione industriale) fu vista da Lewis Mumford come una “officina per la produzione di musica” (una struttura articolata secondo una severa gerarchia: direttore, primo violino, secondo violino, secondo primo violino, gli altri primi e secondi violini, ecc.) – una metafora quindi, come si diceva, dell’organizzazione socio-economica della società industriale. Ecco dunque che quando sviluppiamo un senso di appartenenza ad un determinato luogo, una determinata cultura, etnia, nazione, parte politica, religione, classe sociale, gruppo di età, élite o, al contrario, gruppo marginale, emarginato e magari anche autoemarginantesi, la musica (attività sociale per eccellenza) concorre significativamente a determinare e ad esibire (a volte persino ad ostentare) il nostro senso di identificazione con questa o quella parte della società nei confronti di chi ne è escluso o se ne vuole escludere. In questo senso, si può affermare che l’attività del far musica, i nostri gusti nel produrla e nell’ascoltarla, le nostre scelte di partecipare con altri ai riti a cui essa dà sostanza, costituiscono un ulteriore modo di chiarire a noi stessi e a chi ci osserva chi siamo (o perlomeno chi pensiamo di essere o desidereremmo essere), con chi ci identifichiamo e con chi invece non desideriamo confonderci. La musica, il far musica pertanto, è un’attività che, al tempo stesso, ci accomuna a qualcuno e ci separa da qualcun’altro – sempre e ovunque.

 

L’ascolto di musiche culturalmente lontane quindi, forse più d'ogni altra cosa, ci aiuta a confrontarci con un altrove remoto in senso geografico e culturale. E al tempo stesso, quando siamo fisicamente altrove per davvero, la musica originaria del nostro ambiente naturale più d'ogni altra cosa sa acuire il senso di estraneità che avvertiamo nei confronti del luogo che ci ospita e, quindi, il suo sound incrementa la nostra nostalgia e desiderio del ritorno. La musica, dunque, può anche aiutarci a mantenere un contatto ideale con la cultura di origine quando non viviamo più al suo interno e quando corriamo il reale rischio di perderla, o la abbiamo già sostanzialmente persa. Ecco che in quel caso (gli antropologi parlano di “sopravvivenza marginale”) vediamo che, per esempio, tra gli immigrati svizzeri negli Stati Uniti, in Australia o in Brasile, i canti tradizionali del paese di origine vengono mantenuti con maggiore conservatorismo che nella madre patria.

 

E non è tutto, perché la musica ci trasporta facilmente anche in senso temporale; per esempio, nel passato (tutti hanno sperimentato l’effetto che produce il riascoltare una canzone legata a dei ricordi dell'infanzia). Al tempo stesso la musica e i musicisti possono, e spesso intenzionalmente vogliono, darci un segnale sonoro che ci rende avvertiti che non siamo rimasti fermi, ma che seguendo il percorso della nostra vita abbiamo compiuto un certo tragitto temporale e che, quindi, oramai dobbiamo abituarci ad altri suoni che siano congrui alla nuova stagione che ci accingiamo a vivere (così fecero Philippe de Vitry, Giulio Caccini, Richard Wagner, Anton Webern, Dizzie Gillespie, Karlheinz Stockhausen, ecc.).

 

Se il “viaggio” è dunque la metafora della scoperta, sia del mondo che di se stessi, la musica può sicuramente dirsi a sua volta una metafora del viaggio - perché l'esperienza musicale è sempre costituita dal nostro immergerci in un "altrove" psicologico. Mi sembra quindi doppiamente consono che per festeggiare il suo venticinquesimo compleanno l’associazione Oggimusica abbia scelto il tema del “viaggiare”. In primo luogo perché Oggimusica più di altri produce iniziative aperte all’esplorazione dei mondi della musica al di là di ogni confine. Quindi, data questa sua propensione programmatica, pare ancora maggiormente appropriato che questo compleanno lo si festeggi sottolineando come al suo livello più profondo la musica sia sempre essa stessa esperienza di viaggio e come dunque, senza una disponibilità psicologica al “viaggiare”, ogni possibilità di vivere un’esperienza musicale sarebbe inevitabilmente preclusa.

 

Oggi Musica – Lugano: Concerti d'Autunno 2002