Un ricordo di Disneyland

Mi è capitato una volta di visitare Disneyland in Florida e di sentire lì, in uno dei tanti padiglioni, canzoncina do cui poi riuscii a conoscere il titolo: “It's a Small World After All”.  Può forse sembrare ingenua e stupidella, ma è una canzoncina senza pretese, pensata per i bambini e composta per la Walt Disney da Robert B. Sherman e Richard M. Sherman. Questa coppia di autori che di canzoncine graziose per Walt Disney ne scrisse numerose, anche di migliori, penso in particolare a quelle per il film “Mary Poppins”: chi non ricorda "Supercalifragilisticherpiralidoso"). Però la canzoncina musicalmente modesta che ascoltai a Disneyland, credo fosse negli anni '80, ebbe su di me un impatto fortissimo la prima volta che l'ascoltai. Ancora oggi, a distanza di tanto tempo, non so bene spiegarmi perché.

In quel padiglione di Dineyland in cui mi trovai allora i visitatori salivano su di una barchetta che per conto suo navigava attraverso quello che potrei dire un equivalente di Swissminiatur su scala planetaria. Si percorreva una replica miniaturizzata del mondo intero e sulle sponde, a destra e a sinistra, si vedevano pupazzetti meccanici che rappresentavano gli abitanti della terra in tutta la diversità dei loro colori, dei loro abiti, dei loro atteggiamenti. Tutti cantavano questa canzoncina: “It's a small world after all”. . Non so cosa fosse a creare un'atmosfera quasi magica: forse il ritmo con cui si muovevano i pupazzetti, sincronizzato la canzone diffusa in modo da sembrare che provenisse da ogni dove. L’effetto era ipnotico. Quando alla fine del giro la barchetta uscì dal padiglione e arrivai all'aria aperta, mi sentivo imbambolato, come se stessi uscendo da uno stato di trance. Venuto fuori del tutto, con l'aiuto dell'aria fresca, la prima cosa che notai fu che i miei compagni di viaggio non avevano affatto subito lo stesso l'effetto. Questo è forse un caso estremo ma credo che vada a testimoniare ancora un volta, se mai ce ne fosse bisogno, quanto sia davvero personale l'esperienza della musica. Mi viene proprio da pensare che anche quando andiamo a sentire Mozart e ci sediamo insieme nella sala, non ascoltiamo tutti lo stesso Mozart. L'ascolto musicale è un fatto soggettivo ed è, soprattutto, un fatto “creativo”. Si basa su di una forma di creatività che, naturalmente, ha molto a che fare con la nostra cultura (cultura intesa sia in senso antropologico che in senso scolastico-educativo). Ma questa nostra creatività che mobilitiamo sempre quando ascoltiamo musica, deve avere anche molto a che fare con processi che sono al di sotto del livello della cultura, che sono più profondi, legati ai nostri ritmi fisiologici personali, alla struttura delle nostre capacità percettive.

Le parole della canzoncina di Sherman & Sherman ci dicono che viviamo in un piccolo mondo, dopotutto, e che per questo, in un certo senso, siamo tutti vicini di casa. E' vero, naturalmente. Apparteniamo tutti alla stessa specie zoologica. Quanto diverse possono essere però le nostre reazioni personali…. E come cambiano nel corso del tempo, al mutare di noi stessi e dei luoghi differenti in cui riascoltiamo musiche già note. Mai più mi è riuscito di avvertire di nuovo il fascino ipnotico della  canzoncina di cui vi sto parlando. Le circostanze che me la resero così magica non si sono più ripetute e non si ripeteranno probabilmente mai più. E' stata per me una grande canzone per un momento, e non lo sarà probabilmente mai più, nello stesso modo, né per me né per nessun altro. Non ipnotizzerà forse mai più nessuno come fece con me.

William Saroyan dice qualcosa di molto simile in un suo racconto racconto  (“1,2,3,4,5,6,7”, in The Daring Young Man in the Flying Trapeze): “The sound was wiry. There was something about the dogged persistente or the passage that got into me, something about it that had always been in me, but never before articulated. I won't mention the name of the composition because I am sure the effect it had on me was largely accidental, largely inevitable for me alone, and that anyone else who might listen to the passage will not be moved by it the way I was moved. The circumstances would have to be pretty much like the circumstances of my own existence at the time, and you would have to be about nineteen years of  age, crazy as a bat, etc.”

Sono dunque d'accordo con lui: l'esperienza del suono è cosa del tutto personale e mai ripetibile. Occorre dunque essere pronti a cogliere l'aspetto effimero di questo tipo di esperienza e apprezzare il privilegio di avere ascoltato qualcosa che nessun altro potrà mai percepire negli stessi termini. Nemmeno noi stessi.