Ri-guardare, ri-leggere, ri-ascoltare

Spero mi si creda se dichiaro di avere studiato Dante piuttosto diligentemente quando frequentavo il liceo. Ogni tanto, avverto il desiderio di rileggerne qualche passo. Negli anni successivi la curiosità mi ha indotto ad abbordare Milton, Goethe, Cervantes, Proust, Joyce. Anche Racine e Schiller, tronfi e verbosi per come sono, li ho campionati con un certo piacere. Tutti costoro costituiscono, per giudizio unanime (anche di chi non li ha mai letti), punti di riferimento della letteratura europea. Per questo mi sono sempre sforzato di accedervi in lingua originale. Non avrò magari compreso tutto ciò che in loro c'è da intendere, ma me ne sono fatto una buona idea; mi hanno dato moltissimo e non saprei nemmeno più immaginare la mia vita senza queste loro opere che costituiscono ormai parte del mio vissuto. Fortunatamente però, anche le persone a maggior carburazione intellettuale che ho il privilegio di conoscere, non si scandalizzano se non rileggo settimanalmente la Commedia, Paradise Lost, Faust o El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha. Mi confermano la loro stima ciononostante; probabilmente perché non li rileggono nemmeno loro. La ragione è semplice: se proprio abbiamo sete di conoscenza, vorremo allora allargare l'orizzonte – correndo anche il rischio di smarrirci nell'infinità delle cose che meritano attenzione. È un rischio che fa parte inevitabile del gioco; un gioco – il tentativo di espandere la propria esperienza dell'arte al massimo grado possibile – da cui se ne esce immancabilmente perdenti. L'unica realistica aspirazione può solo essere di vederci riconosciuto, per così dire, l'onore delle armi.

Torniamo alla questione centrale: è evidente che potremmo trascorrere la vita intera in compagnia di Geoffrey Chaucer o contemplare interminabilmente la “Decollazione di San Giovanni” del Caravaggio. Ogni ora e ogni giorno ci scopriremmo qualcosa di nuovo e meraviglioso. È certo possibile fare di queste opere un campo di studio specialistico; occasionalmente succede che se ne scelga una come compagno di viaggio per l'intera propria vita (nel mio caso il Tristam Shandy di Laurence Stern). Normalmente però, valutato il livello di gratificazione che possiamo trarre da un'opera, dopo averla inquadrata in una nostra casella mentale, per quanto ricca di ulteriori potenziali significati, tiriamo avanti, e abbordiamo altra letteratura, altri quadri degni di attenzione – l'appetito vien mangiando. Mi viene in mente, a questo proposito, il critico letterario Marcel Reich-Ranicki, il quale sinceramente dichiarò che erano trascorsi settant'anni da quando aveva letto Balzac; pur convintissimo del valore di questo scrittore. Ma, dopo averlo campionato (quasi nessuno al mondo conosce la Comedie humaine nella sua interezza) Reich-Ranicki tirò avanti. 
 

Perché questo tortuoso preambolo in cui ho detto solo cose ovvie. Per evidenziare quanto sia straordinario, per non dire insensato, che nei confronti di quella che (a partire da fine Ottocento) abbiamo iniziato a considerare “musica classica”, le regole del gioco siano tutt'altre. I punti di riferimento nella storia musicale – in contrasto con quanto avviene per i loro corrispondenti in altre arti – si pretende debbano essere frequentati e ri-frequentati non-stop. Così, il piatto principale offerto delle stagioni concertistiche comprende dosi massicce di Bach, Mozart, Beethoven, Brahms e tutti gli altri “classici”; le stazioni radiofoniche classico-culturali fanno altrettanto; i teatri d'opera,  non mancano di riproporre Verdi e Puccini. Ciò che va oltre è contorno (Ė come se le stagioni di prosa ruotassero attorno ai tragici greci, alle opere di Shakespeare, Calderon, Racine, Goethe, Schiller...e tutto il resto – da Samuel Becket, a Neil Simon, a Eduardo de Filippo – fosse relegato al rango di curiosa guarnizione). Non sorprende che sia contorno anche quel segmento di musica recente che non mira a soddisfare le aspettative del pubblico e i cui autori si augurano, al contrario, che sia il pubblico ad educarsi e sintonizzarsi sul gusto loro. Questo finora non è mai successo in nessuna cultura del pianeta. Resta quindi improbabile che il pubblico possa mai essere persuaso ad ascoltare (e a pagare per ascoltare) musica non pensata per il suo piacere e divertimento.

Domandiamoci dunque quante volte i grandi autori del passato avrebbero saputo patire la martellante riproposta delle loro stesse musiche, quella che dobbiamo sopportare noi senza loro colpa. È noto infatti, l'aneddotica è ricca, che gli stessi autori non amano riascoltarsi all'infinito: Rachmaninov mal tratteneva l'irritazione quando, per l'ennesima volta, gli veniva chiesto di eseguire il troppo celebre Preludio in Do Diesis minore. Gli storici sanno pure che, in passato, persone illuminate combatterono la pratica ossessiva dei repertori. Per esempio, Ludwig Deppe (1828-1890), a cui dobbiamo quelle strumentazioni degli oratori di Handel che contribuirono al loro recupero ottocentesco, sosteneva che Chopin era stato così tanto “suonato, risuonato e strasuonato” che, per poterlo realmente apprezzare, sarebbe stato opportuno fare prima riposare la sua musica sugli scaffali per almeno una ventina di anni (cosa che purtroppo non accadde). Significativamente Robert Cogan, un compositore che mi onora della sua amicizia, mi disse tempo fa che rifiuta sempre di frequentare concerti in cui si esegue musica sua perché, così dice, “la conosco bene e ne ricordo perfettamente la conclusione!”

Proprio perché i prodotti artistici non si sottopongono tutti allo stesso perverso logoramento che si infligge invece alla musica che ha ricevuto la dubbia distinzione di essere considerata “classica”, nessuno mai si sorprende se le persona “colte”, dopo avere letto campioni di letteratura antica, abbordano Dario Fo, García Marquez, Salman Rushdie, Marguerite Duras e, perché no, pure autori meno impegnativi come Peter Bichsel, Christa Wolf, Luis Sepúlveda, Amélie Nothomb, o Rafik Schami. Dalle persone “colte” non ci si aspetta nemmeno, che rivedano una volta al mese la La passion de Jeanne d'Arc di Carl Theodor Dreyer, o L'Année dernière à Marienbad di Alain Resnais; e nemmeno ancora che vadano mensilmente pellegrini a Milano o a Madrid, per rivedere dal vivo il Cenacolo o la Maja desnuda.

Quello che accade alla musica “classicizzata” invece, come direbbe un noto personaggio di Carlo Verdone...è allucinante. Si tratta di una singolarità antropologica, mai vista e nemmeno concepibile in altre culture del pianeta. Come ho provato a mostrare, non lo è nemmeno negli “altrove” della stessa cultura occidentale. Davvero è singolare che persone di buona cultura non rileggano quotidianamente i grandi autori del passato, non rivisitino periodicamente i capolavori della pittura, scultura, architettura, o cinema, ma ci si aspetta da loro una dieta permanente a base di Bach, Mozart, Beethoven, Brahms, Verdi, ecc. Sarebbe invece preferibile acquisire consapevolezza dell'arte – per esempio – di A.R. Rahman, Ralph Towner, Ned Rorem, Robby Williams, John Taverner, Eminem; e poi, di essere al corrente dei due grandi bacini del pop e del rock che, con i loro innumerevoli immissari ed emissari, anno dopo anno, non cessano di produrre imprevedibili sviluppi. 
 

Il jazz è sempre un caso a parte. Pur se in buona misura ormai classicizzato, ancora non obbliga ad autoesiliarsi nell'archeologia. L'arte di Miles Davis ha certamente segnato l'anima di numerose persone; eppure non conosco appassionati di jazz che riascoltino settimanalmente “Bitches Brew”. C'è ancora qualcosa di sano nel jazz che inibisce nei suoi amatori la frequentazione ossessiva e persecutoria di quello che è ormai ragionevole vivere come storia e non come attualità.

Questo logorare e, dunque, avvilire l'opera di chi ha contribuito alla storia musicale dell'Occidente, può essere paragonato al comportamento snob di chi acquista ceramiche di Delft, quelle che i nostri nonni e bisnonni tiravano fuori nelle grandi occasioni, per usarle invece quotidianamente a mostra della propria “raffinatezza”. Si tratta del parallelo culturale di quello che a livello economico Thornstein Veblen chiamava “conspicuous consumption”: un consumo il cui scopo è di mortificare coloro che non se lo possono permettere o, che culturalmente, o socialmente “non ne sono all'altezza”. Non si spiegherebbe altrimenti perché è proprio ai grandi concerti “classici” che i notabili delle città amano far mostra di sé.

Insomma, viene proprio da pensare che tutta la musica messa sull'altare e dichiarata “classica”, andrebbe protetta e difesa proprio da chi professa di amarla.