Necrofilia "classica": un fenomeno del nostro tempo


Chiarisco subito cosa intendo per atteggiamenti "necrofili" in rapporto al consumo di musica "classica".

Si sa bene che il pubblico della musica detta "classica" (per favore, abbiate la pazienza di leggere la paginetta dedicata all'argomento in questa stessa sezione) ascolta prevalentemente autori del Sette/Ottocento e che, negli stessi conservatori, il piatto forte è costituito da musica di compositori deceduti, prevalentemente, non dico prima della nascita degli studenti che la praticano ma, addirittura prima della nascita dei loro padri o perfino dei loro nonni (un mio amico inglese parla di compositori...da lungo tempo decomposti!). E' un caso davvero inedito, mai prima visto nella storia del mondo. Fino a metà Ottocento, infatti, il pubblico preferiva la musica contemporanea e ignorava pressoché totalmente (salvo pochi intellettuali dai gusti antiquari) quella di una o due generazioni addietro. Ancora agli inizi del Novecento la richiesta di musica nuova continuava ad essere cospicua. Ma poi, nel giro di pochi decenni, cambiò tutto. Ebbene sì, questo prevalente consumo di musica composta da autori defunti da tanto tempo rivela, secondo me, una propensione che definisco "necrofila", una forma di perversione, che caratterizza il consumo musicale del nostro tempo.

La natura patologica del fenomeno è riconoscibilissima perché, in nessun'altra cultura del mondo, si era mai preferita la musica del passato a quella del presente. Non serve però prendersela col paziente stesso - col pubblico o con chi vuole organizzare manifestazioni al pubblico gradite. Di sicuro, chi rifiuta la musica accademica e pretenziosa del nostro tempo (e tra costoro i musicisti di mestiere abbondano) non lo fa per malvagità o per incultura. La cultura, semmai, è normalmente necessaria per abbordare la musica del passato e non quella del presente che anche il più sprovveduto degli ascoltatori dovrebbe gradire per semplice istinto, per aderenza a l'air du temps. Ma questa aderenza non si verifica più.  

Fatta la constatazione, rimane pur sempre la grossa domanda: perché mai la musica composta con intenzione artistica (quella che Alois Riegl indicava come Kunstwollen) a partire dal Novecento, continua a costituire un contorno e non la pietanza dei concerti che primariamente desiderano essere classificati come "eventi culturali" (quelli a cui partecipano così spesso i notabili di ogni città e regione...)? E chiaro, naturalmente, che qui non mi riferisco alla musica di di Nino Rota, Astor Piazzolla o Erich Korngold, che tanto circola in radio televione e internet - ma invece a quella di Webern, Boulez, Babbitt, Stockhausen, John Adams, ecc. Lasciando agli scritti accademici l'analisi approfondita del problema, forse si può iniziare a comprendere il fenomeno ricordando che quella che oggi consideriamo musica "classica" non era affatto "classica" quando fu composta. Per giunta era eseguita in gran parte da dilettanti. L'esecutore, fino al primo Ottocento, non esisteva per fare rivivere l'opera dei compositori (come oggi si pensa debba essere) ma, al contrario, i compositori esistevano per soddisfare le richieste di un ampio numero di esecutori dilettanti che volevano divertirsi con musiche sempre nuove, che liquidavano poi con un paio di prove al massimo. Solo con la seconda metà di quel secolo cominciò ad affermarsi la (strana) idea che l'opera musicale dovesse necessariamente essere portatrice di significati duraturi e che il suo valore fosse meglio giudicato dai posteri che non dai contemporanei, e che quindi dovesse essere maneggiata solo dalle attente mani di un professionista.

Così a poco a poco, il concerto di musica "classica" si è progressivamente configurato in un rito di sacralità laica che celebra i valori eterni delle grandi opere. Il paradossale è che Haydn, Mozart e Beethoven, che oggi ascoltiamo in religioso silenzio, mettevano spesso nella loro musica passaggi umoristici che miravano a divertire il pubblico, e a strappargli anche qualche occasionale risata. Oggi purtroppo non ride più nessuno. Questo repertorio è stato santificato e di fronte ai santi - ovviamente - non è lecito ridere. Mettendolo così sull'altare, si è innescato un meccanismo perverso, perché i compositori più recenti, quelli che si sono sentiti eredi di questa tradizione "classica", hanno avvertito il dovere di mirare alla stessa santificazione e, quindi, più all'ardua sentenza dei posteri che non allo spontaneo consenso dei contemporanei (quando nel 1925 il Wozzek riscosse un inaspettato successo, Alban Berg ne fu preoccupato e si chiese addirittura in cosa potesse avere sbagliato!). Con questa scelta molta della musica classica, a partire dal Novecento, si è volontariamente relegata in una nicchia, in un ambito ristretto. Una musica che si definiva "radicale" o "d'avanguardia", era per definizione un fenomeno minoritario. Lo comprese bene Milton Babbitt quando, nel 1958, osservò che chi come lui aveva fatto questa scelta, doveva accettarne le inevitabili conseguenze. E non si dica dunque che il pubblico dovrebbe essere abituato ed educato a questo tipo di musica contemporanea. Sarebbe un'assurdità antropologica. In nessuna epoca, in nessuna cultura del mondo, la gente ha mai avuto bisogno di essere educata alla musica del proprio tempo.

E però ci sono i pro e i contro. E' vero che il pubblico del Settecento era ingordo di musica contemporanea, ma è anche vero che la prendeva piuttosto alla leggera. Parlava durante l'esecuzione, a volte mangiava una fetta di Strudel durante l'ascolto di una sinfonia. Insomma, non si può mai avere tutto. Sdrammatizziamo però. Il mondo della musica oggi è così: frammentato in ogni suo ambito. Non ci sono più musiche che parlino a tutti. Anche la "techno" e la "heavy metal" non agganciano l'intero pubblico giovanile, ma solo una sua parte. Il jazz è pure musica di minoranza, e naturalmente lo è anche la musica "classica", come lo è il melodramma. Oggi tutte le musiche sono musiche di minoranza; vivono fianco a fianco ignorandosi a vicenda. Per questo non è più possibile ai compositori di oggi ambire al richiamo pressoché universale che esercitarono ai loro tempi Verdi e Wagner. In fondo, non ci riescono più nemmeno i defunti. Anche se si è affermata l'idea che per essere considerato grande, per essere considerato un genio sia indispensabile essere finiti in cenere da molto tempo, l'ambito in cui queste ceneri sono venerate è pur sempre circoscritto - ciascuno frequenta il suo proprio cimitero, c'è chi va da Elvis, chi va da Brahms, chi va da Billie Holiday.