Scale, arpeggi e agitar di braccia?
Per un'educazione musicale più estesa e aperta al mondo
(Corriere del Ticino, mercoledì 12 settembre 2012)


Con uno slogan del tipo “lavoro per tutti!”, è facile ottenere ampi consensi. Ma se poi si scopre che per lavoro si intende “lavoro coatto”, inflitto magari in dispregio ai talenti e alle propensioni delle persone – allora il consenso cala. Quando qualcosa suscita un'emotiva approvazione, è dunque meglio verificare cosa si celi dietro lo slogan. Sicuramente lo farei quando si sostiene la causa dell'educazione musicale, richiedendo che sia aperta a tutti. Sembra una buona idea, a cui poter reagire solo con entusiastica approvazione. Ma, attenti, chiediamoci prima “quale educazione musicale” si propone? E di “quale musica” stiamo parlando? Gli approcci educativi non sono universalmente condivisi e il fenomeno musica non è monolitico, ma altamente plurale. Gli etnomusicologi da circa un secolo parlano di “musiche” e spiegano – inascoltati – che non si tratta di un linguaggio universale e che i sistemi musicali sono spesso incompatibili tra loro.  

Gli abituali panegirici in favore dell'educazione musicale, emanano quasi sempre odore di violini, pianoforti, flicorni, pentagrami e chiavi di violino, ma non di chitarre elettriche, di tastiere midi, di kalimbe africane o di santour persiani. Vi risuona quella mentalità che vorrebbe imporre a tutti lo stesso tipo di insegnamento pratico-artigianale offerto dai conservatori – solo in forma un po' annacquata. Non si parla invece di “cultura” musicale simile a quella che le scuole offrono, per esempio, in ambito letterario. I giovani non vengono educati alla letteratura chiedendo loro di scrivere poesie, novelle, e di recitare Pirandello o Dürrrenmatt; a ragion veduta, perché saper scrivere una novella non è sinonimo di posseduta “cultura letteraria”. Similmente, suonare uno strumento non è sinonimo di cultura musicale. Beethoven era un grande compositore ma non era una persona di grande cultura musicale. Il musicologo Hugo Riemann invece sì, e fu lui a creare le categorie di giudizio attraverso cui noi oggi apprezziamo Beethoven, e gli attribuiamo quel “senso” che consente alle sue musiche di avere “senso” anche al giorno d'oggi.

Musica come teoria e musica come pratica

Verificare il radicamento di questa concezione pratico-artigianale, che valorizza la competenza del fare, a scapito di quella riflessiva e discorsiva, è facilissimo. Basta dire di avere intrapreso lo studio della musica e arriva immediatamente la domanda: quale strumento suoni? Anche quando uno studioso dichiara di essere, appunto, “musicologo”, arriva inevitabilmente la stessa reazione: “ah, sì musicologo? interessante, ma quale strumento suona?”. Non mi pare che agli studiosi di arti figurative si chieda mai se dipingono, scolpiscono, producano xilografie, incisioni con bulino o acqueforti. Non mi pare nemmeno che ai professori di lettere si richieda di scrivere romanzi, poemi, novelle o sonetti, anche se alcuni lo fanno.

Se il concetto di educazione musicale radicato nella mentalità di oggi è fondamentalmente artigianale, nel Medievo era tutt'altro. Allora si parlava di musica “teorica o speculativa” come di qualcosa assai più nobile della “musica pratica o attiva”. Si attribuiva cioè più prestigio al teorico (musicus) che non al musicista pratico (cantor). Guido d'Arezzo, attorno al 1026, pronunciò a tal proposito una frase perentoria che andrebbe scritta sulla facciata di ogni scuola di musica: “Tra musici e cantori la differenza è grande: questi cantano o suonano, quelli sanno di cosa è fatta la musica. Ma chi fa ciò che non sa si può ben definire una bestia.” (Musicorum et cantorum magna est distantia. Isti dicunt, illi sciunt quae componit musica. Sed qui facit, quod non sapit, diffinitur bestia.)

Se oltre all'artigianato (trasmesso ovviamente attraverso la notazione, quindi attraverso gli occhi – e non l'orecchio – cosa che ottunde la potenzialità di aprirsi ad un ampo spettro di esperienze musicali) si aggiunge un pizzico di storia della musica, si dà allora per scontato che debbe essere eurocentrica e mai vada a toccare le musiche autoctone di altre culture. Il mio sospetto è che il sogno di molti educatori musicali sarebbe di irregimentare tutti i loro pargoli in un'orchestra sinfonica – metafora della nostra concezione gerarchica e industriale della società – e che è l'ultima cosa di cui hanno bisogno i giovani d'oggi.

Non tutto è per tutti

Certo, è anche bello apprendere uno strumento, come è pur bello saper leggere le note. Tutto ciò che si sa fare è poi bello saperlo fare; ma è anche bello ascoltare una canzone alla radio e reinventarla poi al pianoforte – cosa che non si impara in conservatorio. Ma non tutto è per tutti. C’è chi ama usare la propria voce e chi preferisce ballare (tra l’altro, di educazione alla danza si parla pochissimo: davvero il Cristianesimo ci fa tuttora vivere con disagio il rapporto col corpo). Altri ancora preferiscono giocare col computer e manipolare sullo schermo gli stessi suoni che amano udire, e producono così una musica tutta loro, che nulla ha a che fare con quella che gli educatori musicali vorrebbero insegnargli a scuola. Sarebbe invece bello aiutarli a coltivarla con più riflessione e meno istinto.  

In altre parole: le forme e le dimensioni dell’esperienza musicale sono tante. Sono rare le persone che non ne amano almeno una. Tra l'altro, oggigiorno il contatto con la musica è ineludibile; una colonna sonora costantemente accompagna la nostra esistenza, nel bene e nel male. Vale la pena comprendere quale senso voglia avere, possa avere, nei diversi momenti in cui ci avvolge. Vale la pena acquisire consapevolezza di quante e quali siano le dimensioni e le funzioni del fenomeno e del modo in cui ci può influenzare. Così attrezzati, meglio si può scegliere in quale forma, a quale livello partecipare all'uso sociale del suono o, invece, tirarsi indietro e porlo al limite del nostro orizzonte percettivo.

Un diploma di trombone o violoncello, dopo anni trascorsi col naso incollato alle palline nere disposte sul pentagramma, non aiuta minimamente a capire il contributo che Eminem e U2 danno alla cultura conteporanea; non solo, ma estranea i giovani proprio da queste musiche che amano e ascoltano ogni giorno. Aiutiamoli invece a viverle con la consapevolezza di chi ne comprende il perché e il per come.

Tutto questo non vuol dire, ovviamente, che un percorso educativo che parta,  seguendo il sano principio di Kodály, da quello che Franco Fabbri chiama “il suono in cui viviamo”, non possa condurre i giovani, in un secondo tempo, ad apprezzare magari i madrigali di Sigismondo D'India o le canzoni dei Maori; ma non può certamente partire da queste cose, e nemmeno da Mozart o Puccini.

La musica ci rende migliori?

È poi paradossale che si reclamizzi l'educazione musicale perché darebbe ai ragazzi molteplici benefici: sociabilità, intelligenza, apertura mentale, spirito di collaborazione – e chi più ne ha più ne metta. Se fosse vero, i musicisti sarebbero i migliori rappresentanti della specie umana, quelli da prendere sempre a modello. Non mi pare che sia così, guardiamoci intorno. Al contrario, i musicisti manifestano proprio tutti gli stessi difetti che troviamo tra bancari, idraulici o giardinieri. Forse, anzi, i musicisti sono un po' più vanitosi e invidiosi. Penso in primo luogo a me stesso. Sono musicista, non troppo incolto, ma tutto si può dire di me salvo che io sia una persona equilibrata. Perché allora, invece di attribuire all'educazione musicale taumaturgici poteri, non diciamo semplicemente che il fenomeno musica occorre studiarlo perché è cultura? Studiamolo per la stessa ragione per cui studiamo letteratura, o storia d'arte, non perché ci renda più buoni o più felici.

In conclusione: vorrei evitare che si facesse subire “a tutti” quel tipo di educazione musicale, in base alla quale un noto concertista che udì (ahimé, per la prima volta) provenire dal mio stereo le note di Bitches Brew (Miles Davis 1970!) ha potuto chiedere, con curiosità perplessa, che “tipo di musica” fosse! Ecco, di questa educazione musicale, fatta di musica appresa con gli occhi, che alla fine ignora addirittura Miles Davis (forse perché non è con gli occhi che si impara a suonare in quel modo) – sicuramente – di questa, i giovani di oggi possono ben fare a meno.

Coda

Le idee fondamentali contenute in questo articolo furono espresse per la prima volta in un fortunato libro, che ebbe numerose ristampe, dal critico musicale americano Henry Edward Krehbiel (1854–1923):

There is greater need than pianoforte teachers and singing teachers, and that is a numerous company of writers and talkers who shall teach the people how to listen to music so that it shall not pass through their heads like a vast tonal phantasmagoria, but provide the varied and noble delights contemplated by he composers. (How to Listen to  Music, 1897)

È davvero singolare che ancora oggi si senta la necessità di reiterarle!